Interveniamo sulla c.d. “emergenza profughi” perché ci coinvolge direttamente come Caritas Diocesana, organismo della Chiesa Pisana per la pastorale della Carità, già impegnata nell’accoglienza di undici persone in fuga da guerre e situazioni di conflitto e reale rischio per la propria incolumità ormai e perché incontriamo e incrociamo le loro storie anche al Centro d’Ascolto piuttosto che alla Cittadella della Solidarietà e negli altri servizi di prossimità ai più poveri.
Interveniamo certo anche sollecitati dalla discussione internazionale sulla protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, convinti che ci sia bisogno di una maggiore corresponsabilità e condivisione da parte degli Stati membri dell’Unione Europea non solo per quanto riguarda le operazioni di sicurezza contro scafisti e “barconi”, ma anche per quel che concerne le politiche e gli interventi d’accoglienza. E, altresì, sicuri, che l’Ue debba “ottemperare ai suoi obblighi internazionali per la protezione dei diritti umani alle sue frontiere esterne, incluse le operazioni di ricerca e salvataggio che, come ha dimostrato l’operazione “Mare Nostrum”, sono in grado di salvare migliaia di vite umane” come recitano anche le raccomandazioni di Anci, Caritas, Migrantes, Sprar e Acnur.
Interveniamo pure perché convinti della necessità di pervenire quanto prima ad una legge organica sull’asilo in modo da superare i limiti della mancata sistematizzazione della materia da cui derivano prassi difformi sul territorio nazionale per quanto riguarda il riconoscimento di una serie di diritti quali, ad esempio, l’iscrizione al servizio sanitario o all’anagrafe, l’accesso ai servizi sociali, la possibilità di presentare domanda di alloggi popolari e gli strumenti d’inserimento nel mondo del lavoro.
Soprattutto, però, prendiamo parola dopo esserci interrogati su quel che possiamo fare qui e ora e su quel che sarebbe necessario fare per assicurare un’accoglienza dignitosa ai profughi e ai richiedenti asilo che già sono da noi, a Pisa e in Toscana, e a quelli che sicuramente arriveranno nei prossimi giorni, settimane e mesi tenendo sempre ben presenti le situazioni di difficoltà e disagio che riguardano anche tanti cittadini residenti. E’ chiaro, infatti, che per noi, espressione di una Chiesa al servizio degli ultimi, non c’è alternativa all’accoglienza e poiché è in questa direzione che si stanno muovendo tanto le autorità nazionali che quelle regionali e locali, riteniamo utile offrire il nostro punto di vista.
1.Oltre la logica dell’emergenza. Quasi 63mila migranti sbarcati nel 2011, 43mila nel 2013, addirittura 170mila l’anno scorso e otto mila solo nei primi di due mesi del 2015, il 43% in più rispetto al primo bimestre del 2014. Sono numeri significativi che raccontano, non di un’invasione, ma di un fenomeno che è ormai strutturale da qualche anno a questa parte, e che spiegano di per sé la necessità di superare un approccio emergenziale: il modello organizzativo fortemente centralizzato nelle mani del Ministero dell’Interno e delle Prefetture, infatti, è idoneo per emergenze e fenomeni anche acuti ma limitati nel tempo; meno, invece, per gestire un flusso ininterrotto e crescente di persone in fuga da guerre, conflitti e situazioni di grave pericolo. Al riguardo, quindi, fermo restando il coordinamento da parte del Governo e delle sue emanazioni territoriali, riteniamo sia fondamentale l’attivazione di una cabina di regia e processi decisionali il più vicino possibile al territorio e quantomeno di livello regionale prevedendo comunque un forte coinvolgimento degli enti locali e delle realtà dell’associazionismo e del terzo settore presenti sul territorio e che hanno esperienza e competenza in materia.
2.Accoglienza diffusa nel territorio. In tal senso è condivisibile quel modello di accoglienza diffusa nel territorio promosso e praticato in Toscana negli ultimi anni, attraverso l’inserimento di piccoli nuclei di migranti nei nostri quartieri e paesi. Un approccio che oggi è “sfidato” dai numeri crescenti dei flussi in arrivo e che, per funzionare, ha bisogno della corresponsabilità e condivisione anche di quei centri che, finora, non sono stati coinvolti nella gestione dell’accoglienza: la loro partecipazione diviene fondamentale per continuare a praticare quell’accoglienza diffusa nel territorio regionale che potrebbe davvero fungere da modello e buona prassi a livello nazionale a patto che, almeno a nostro parere, sia accompagnata da alcune fondamentali attenzioni.
3.La mediazione con il territorio. Fra queste, sicuramente, il consenso della comunità che accoglie e l’attivazione delle sue risorse, che diviene condizione necessaria, anche se non sufficiente, per il buon esito dell’accoglienza: per questo giudichiamo positivamente gli ultimi orientamenti della “cabina di regia” istituita presso la Prefettura di Pisa che prevede l’assenso dei Sindaci dei Comuni interessati quale “conditio sine qua non” per l’attivazione dei percorsi di presa in carico dei profughi e dei richiedenti asilo.
4. La logica della corresponsabilità. Tale decisione, peraltro, non fa altro che accrescere le responsabilità delle istituzioni più vicine ai cittadini: se, infatti, finisse per incentivare atteggiamenti di chiusura o scarsa accondiscendenza nei confronti degli interventi d’accoglienza, la conseguenza sarebbe quella di veder fallire quel modello di c.d. “accoglienza diffusa” a parole, almeo in Toscana, sostenuto da tutti. Muoversi secondo una seria logica di corresponsibiltà a nostro parere è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per gestire quel modello dell’accoglienza diffusa promosso nella nostra Regione.
5. Volontariato civico per i migranti accolti. Sotto questo profilo suggeriamo anche di coinvolgere i migranti ospitati in esperienze di volontariato civico a favore delle comunità d’accoglienza le quali, molto spesso, sono esse stesse alle prese con le difficoltà e i disagi provocati dalla crisi, problemi meno dolorosi di quelli vissuti dai profughi ma, comprensibilmente, percepiti spesso in modo molto acuto dalle famiglie: ecco perché, quindi, è importante che coloro che si sono assunti la responsabilità dell’accoglienza possano cogliere nelle persone ospitate non solo l’adempimento di un dovere di umanità, o peggio ancora un fardello, ma anche un’opportunità e una risposta ad alcuni bisogni, piccoli o grandi che siano, delle loro comunità e di chi le abita. Specie nella prima fase, i sei mesi successivi alla presentazione della domanda di protezione internazionale durante i quali non è consentito lavorare riteniamo che esperienze di servizio del genere possono anche costituire tappe importanti nel percorso d’integrazione del richiedente asilo.
6. Fare “parti disuguali fra uguali è un’ingiustizia”. In questo momento in Italia ci sono circa 67mila immigrati accolti in strutture d’accoglienza: 21mila di essi si trovano nei centri SPRAR, il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, che è stato notevolmente potenziato negli ultimi due anni (passando dei 3mila posti d’inizio 2013 ai 20mila circa previsti per il biennio 2014-16), in cui lavorano operatori con competenze specifiche spesso maturate in anni d’esperienza e che prevede misure di orientamento e accompagnamento legale e sociale, la costruzione di percorsi individuali di inclusione e inserimento sociale ed economico mediante corsi di lingua italiana, istruzione degli adulti, iscrizione a scuola dei minorenni, accompagnamento ai servizi socio-sanitari e interventi di informazione legale. I restanti 47mila migranti, invece, si distribuiscono fra i vari Centri di Primo Soccorso e Accoglienza (CPSA), Centri d’Accoglienza (CDA) e Centri d’accoglienza per richiedenti asilo (CARA), in cui fino a febbraio scorso erano ospitate 9.500 persone, e soprattutto le altre strutture temporanee d’accoglienza allestite nei mesi per far fronte all’emergenza in cui, sempre fino a due mesi e mezzo fa, si trovavano 37mila migranti. I percorsi d’accompagnamento e le opportunità di coloro che si trovano nei Cpsa, Cda o Carae quelle offerte agli altri ospitati nelle strutture temporanee non sono le stesse dei migranti che, invece, sono accolti nel sistema SPRAR, il quale assicura un sostegno continuativo e prolungato nel tempo, finalizzato all’inclusione sociale. Ed è solo il caso, ossia la disponibilità di posti, che decide se un richiedente asilo finisce in un sistema o nell’altro. E’ senz’altro vero, come scriveva don Milani, che “fare parti uguali fra disuguali è la più grande ingiustizia”, ma lo è altrettanto fare parti diseguali fra uguali. Questo doppio binario d’accoglienza, scaturito soltanto dalla difficoltà di gestione dell’emergenza e che non trova giustificazione alcuna nelle condizioni delle persone accolte, deve necessariamente essere sanato con provvedimenti a livello nazionale.
7. Standard unitari d’accoglienza. In tal senso facciamo nostra la richiesta contenuta nel Rapporto 2014 sulla “Protezione internazionale in Italia” curato da ANCI, Caritas, Migrantes, SPRAR e ACNUR, in cui raccomanda di prevedere “standard unici in ogni contesto d’accoglienza, strutturale o straordinaria che sia a partire dalle linee guida dello SPRAR costruite nel corso degli anni dal basso, con il fondamentale contributo” di chi opera nei territori.
8. Dare continuità ai percorsi d’inserimento. Chi arriva in Italia con i barconi ha spesso vissuto esperienze di sradicamento molto traumatiche. Diversamente da quanto capitato anche nelle ultime settimane, sarebbe quindi auspicabile che il percorso d’accoglienza e d’inclusione sociale potesse svolgersi prevalentemente nel medesimo contesto, evitando ulteriori spostamenti e trasferimenti, specie se il migrante ha già iniziato a stringere rapporti con la comunità d’accoglienza. Abbandonare il paese o la città in cui si vive, ad esempio, da due o tre mesi, piuttosto che separarsi da amici, parenti e compagni di “sventura” senza alcuna spiegazione o giustificazione se non quella di doversi spostare per fare posto ad altri, infatti, spesso si traduce in un ulteriore piccolo trauma, difficile da contenere.
9. La necessità di operatori competenti. La gestione di numeri consistenti di persone che hanno alle spalle vissuti molto traumatici non è affatto cosa semplice e richiede competenze specifiche e personale preparato. Le buone intenzioni di chi accoglie, se non supportate e accompagnate da saperi e conoscenze, rischiano d’innescare situazioni difficili da gestire: la sola collocazione presso strutture alberghiere o enti pubblici e privati non competenti o distanti da questi temi può rischiare di peggiore non solo le condizioni delle persone accolte, ma anche quelle dei territori ospitanti. Beninteso, a scanso di equivoci precisiamo che non si tratta di tarpare le ali agli slanci di generosità e alla volontà di tanti ben intenzionati: si tratta piuttosto di valorizzare e tutelare tali slanci assicurando loro i supporti e sostegni necessari per gestire percorsi spesso piuttosto complessi.
10. Il monitoraggio costante degli interventi d’accoglienza. Altresì fondamentale è il monitoraggio costante e capillare degli interventi d’accoglienza, finalizzato tanto a verificare sia le modalità d’accoglienza effettivamente praticate, con particolare attenzione al rispetto dei diritti umani e alla promozione di reali percorsi d’inserimento nel nuovo contesto, sia gli aspetti gestionali e contabili, onde accertare che le somme erogate siano effettivamente destinate ai soggetti e alle attività previste. Procedure di controllo rigorose e frequenti da parte dei soggetti pubblici cui è affidato il coordinamento delle strategie d’accoglienza (ad oggi Governo e Prefetture con il coinvolgimento delle Regioni) sono necessarie per far emergere immediatamete casi di gravi abusi e violazioni che vanno a svantaggio in primo luogo dei soggetti accolti, ma anche della grande maggioranza di soggetti del terzo settore e del volontariato, quasi sempre seriamente impegnati nella gestione di percorsi d’accoglienza genuini e, spesso, anche efficaci.
Per quanto ci riguarda, come comunità ecclesiale pisana e soggetto impegnato nell’accoglienza, c’impegniamo a fare nostri questi principi, praticandoli e sostenendoli negli interventi che ci riguardano direttamente e anche nel dibattito pubblico sul tema dell’accoglienza. Auspichiamo, al riguardo, un coinvolgimento della comunità cristiana pisana ancora più forte, invitando le parrocchie che hanno disponibilità a mettere a disposizione alloggi e strutture d’accoglienza e i singoli credenti a sostenere tali percorsi, ognuno secondo le proprie possibilità e disponibilità: dedicando qualche ora di volontariato settimanale all’ospitalità dei profughi ma anche mettendo le proprie competenze e capacità a disposizione dei percorsi d’accoglienza e integrazione fino all’accoglienza vera e propria all’interno del nucleo familiare secondo la logica del progetto “Un rifugiato a casa mia”, l’intervento di seconda accoglienza sostenuto dalla Cei e che vede già coinvolte tredici diocesi. Sono segni importanti, non solo per il loro impatto reale sulla vita di molte persone in fuga da guerre e disperazione, ma anche per la capacità che hanno di “parlare” alla comunità ecclesiale e civile. Per questo la Caritas Diocesana di Pisa già adesso è a disposizione di tutte quelle parrocchie, associazioni e singole famiglie desiderose d’impegnarsi in interventi d’accoglienza, per accompagnarle e sostenerle in questa scelta.