L’attenzione alla solidarietà in pastorale, perché … Riflettiamo sulla pratica e prima ancora sullo stile della solidarietà nell’azione pastorale assumendo come primo riferimento la parrocchia, cioè la realtà più vicina a chiunque voglia fare un’esperienza di chiesa. In parrocchia c’è (ci dovrebbe essere…) posto per tutti: assidui o discontinui, adattati o critici, tradizionali o innovatori. Un’apertura per così dire “a bassa soglia” capace di essere anche spazio adeguato e conveniente per la solidarietà, sia pure in forma iniziale o incompleta: sia per chi ha desiderio di donare, sia chi si aspetta di ricevere.
Nei due sommari degli Atti (2,42-47; 4,32-35) tra le caratteristiche costanti della prima comunità cristiana di Gerusalemme troviamo aspetti come lo stare insieme, mettere cose in comune, rinunciare al proprio e condividerlo con chi ne è privo. Accanto alla comunione di fede basata sull’insegnamento apostolico, sulla frazione del pane e sulla profonda unità di cuori e di anime, la condivisione dei beni materiali è dimensione altrettanto costitutiva e identificativa. Non è un’applicazione, ma un fondamentale; inoltre il testo lascia intendere che è questo il motivo del favore di cui la comunità gode al suo esterno.
Le tre essenziali dimensioni. All’inizio degli anni ’90, gli orientamenti pastorali della CEI Evangelizzazione e testimonianza della carità indicarono due obiettivi: “far maturare delle comunità parrocchiali che abbiano la consapevolezza di essere, in ciascuno dei loro membri e nella loro concorde unione, soggetto di una catechesi integrale – rivolta a tutti e in particolare ai giovani e agli adulti –, di una celebrazione liturgica viva e partecipata, di una testimonianza di servizio attenta e operosa; favorire un’osmosi sempre più profonda fra queste tre essenziali dimensioni del mistero e della missione della Chiesa” (n. 28).
Quelle che il documento indicava come dimensioni essenziali, sono evidente esplicitazione dei testi di Atti sopra citati; in particolare ci riferiamo qui alla “terza dimensione”, accolta e riproposta sotto la categoria del servizio di carità da vivere come testimonianza. Inoltre il testo la dichiara inseparabile dall’impegno per la giustizia sociale (n. 38) e indica il passaggio da gesti occasionali a legami impegnativi di accoglienza, ospitalità e altri servizi in risposta ai bisogni dei fratelli (n.39).
Ritornando al testo degli Atti, il prosieguo del racconto (6,1-6) evidenzia l’insorgere di esigenze organizzative, che portano i dodici a fare la scelta dei sette “diaconi” per il “servizio delle mense”, in particolare per non discriminare i fedeli di lingua greca. Viene da dire: solidarietà ed equità, attenzione alla diversificazione dei bisogni. Non è casuale che diversi dei “sette” abbiano nomi greci, sappiano la lingua e quindi siano capaci di autentico ascolto di quel tipo di bisogno.
Possiamo vedere qui l’abbozzo di una Chiesa che rende doverosamente strutturale il servizio delle mense accanto a quello della Parola: la buona notizia è dire e dare, annunciare e donare, accogliere Dio nel povero. Poveri e Vangelo si illuminano a vicenda. Non sarebbe male, in base alle indicazioni pastorali di cui sopra, domandarci quanto le “tre essenziali dimensioni” strutturano la vita delle nostre parrocchie, inclusa l’articolazione e il funzionamento dei consigli pastorali.
Lo “strumento” Caritas. Perché tutto ciò non resti enunciato teorico, non si limiti all’intraprendenza di questa o quella componente ecclesiale, né ci si accontenti di singoli gesti spontanei, è evidente il bisogno di una strategia pastorale in termini di azione educativa, attraverso adeguati percorsi e strumenti. Nella storia e nella vita delle Caritas, dal livello nazionale (anno di nascita 1972, nel solco del Vaticano II) a quello parrocchiale – e sempre richiamando la centralità della dimensione diocesana –, ognuno può trovare adeguata sussidiazione, conforto di idee e racconto di buone prassi in materia di solidarietà. I mutati contesti socio-pastorali non fanno venir meno la prevalente funzione pedagogica di tutto ciò che Caritas promuove: educare facendo e facendo fare, ovvero la “pedagogia dei fatti”.
Senza mai dimenticare di attingere a piene mani alle più profonde e attualissime lezioni del Magistero in materia di solidarietà, condivisione, dedicazione ai poveri: il Vaticano II e in particolare la Gaudium et Spes, la Sollicitudo Rei Socialis, la Deus Caritas est e l’Evangelii Gaudium.
Linee guida per un agire solidale. Proveremo a questo punto a passare in rassegna aspetti utili per la progettualità pastorale, e anche per le relative verifiche di taglio sia pratico che educativo: che cosa una comunità fa e come cresce facendo; in che misura l’agire solidale si pone come azione evangelizzatrice e di presenza sul territorio.
Condivisione dei beni. È chiara ed evidente la percezione di una povertà che sta crescendo, con percentuali diverse sui territori ma ormai dappertutto incombente e difficilmente superabile nel breve o medio periodo. La comunità cristiana non può che agire a livello di “segni”, facendosi solidale con gli “ultimi” nella misura delle proprie capacità, generosità, competenze e limiti. Collette periodiche, appelli in particolari situazioni ed emergenze, necessità di sopperire continuativamente ad alcuni bisogni scoperti (a partire dai pacchi-spesa alimentari) sono piccoli gesti che parlano a molti; se ben proposti e attuati smuovono i cuori e le coscienze, educano grandi e piccoli, sono un segno anche per i saltuari e i lontani. Nella vita della comunità, il momento liturgico dell’offertorio può essere occasione per una visibilità non ostentata, ma pregata.
Uso delle risorse. Ricorso ai beni materiali, valorizzazione di energie pratiche e intellettuali, costruzione di legami comunitari, riflessioni spirituali e culturali possono essere collegati tra loro in percorsi di solidarietà e condivisione. Sotto il profilo finanziario, sia la parrocchia che le famiglie sono chiamate a interrogarsi su quanta parte del rispettivo bilancio dedicano alla voce “poveri”. Una parrocchia che s’impegna e che informa, che “investe” intelligentemente in carità, che non si sottrae a progetti più ampi a livello diocesano e nazionale diventa un segno per molti; la stessa pubblicazione del bilancio parrocchiale, redatta in modo che il “capitolo”carità” non appaia una voce tra le tante, è un chiaro messaggio. Stessa cosa vale per l’uso dei locali: quanti sono i metri cubi dedicati alla catechesi, alla formazione, al tempo libero e quelli predisposti per l’accoglienza? Una parrocchia che allestisce un piccolo appartamento per senza dimora, che accoglie una famiglia di profughi, che offre spazi in cui persone sole possono incontrarsi potrà invitare con maggiore credibilità le famiglie ad aprire la porta.
Prossimità nel bisogno. Sia la carità che la solidarietà sono più dell’elemosina, qualcosa di diverso dal gesto emotivo e occasionale (da non sottovalutare, ma da educare). Agire “in solido” e sentirsi parte di un tutto può diventare un punto di forza sia per contrastare povertà ed emarginazione, sia per dare a un sapore di concretezza a termini di uso corrente come comunità e comunione. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono…” è principio da predicare e praticare. La comunità che s’incontra intorno all’altare, cos’altro fa per conoscersi e per portare i pesi gli uni degli altri? Risorsa preziosa è il volontariato, in forma organizzata e non necessariamente burocratizzata: mettere a disposizione il tempo, la capacità di ascolto e di compagnia, la gestione di servizi alla portata anche di piccole comunità, la solidarietà porta a porta, l’informazione sui bisogni per farli diventare coscienza comune…
L’ordinario prima dello straordinario. Gli impegni familiari e professionali sono sempre più assorbenti, al di là del sincero desiderio di comunità: guai ad alimentare l’idea di una solidarietà praticabile soltanto “fuori casa”! La famiglia, il lavoro, la cerchia abituale delle relazioni sono per tutti occasioni possibili e feconde di altruismo, ascolto del prossimo, buon uso delle proprie energie fisiche e mentali. Pensiamo a quanto ciò sia decisivo in tutte le professioni che comportano un alto livello di relazionalità: in ambito sanitario e assistenziale, in quello educativo e scolastico. Analogo ragionamento vale per la famiglia e per come in essa si possano praticare l’accoglienza, la sobrietà, l’attenzione alle famiglie meno fortunate. Pensiamo all’efficacia di “reti” tra genitori perché i figli imparino ad accogliersi, uscire, fare esperienze di condivisione. Per gli stessi percorsi di iniziazione cristiana dei ragazzi, in una società sempre più frammentata, sarà di vitale importanza l’interazione di famiglie aperte e solidali.
Rapporti con le autorità civili. Nessuna parrocchia è un’isola, stare sul territorio e tra la gente vuol dire pensarsi come soggetto sociale insieme ad altri, in primo luogo alle istituzioni civili. Peraltro la crescita della povertà e i complessi e diversificati percorsi di esclusione sociale rendono non utile ma necessaria la sinergia tra forze in campo. La parrocchia che può agire, e in molti casi già agisce, in risposta ad alcune urgenze ed emergenze, mai deve dimenticare almeno altri due livelli di presenza e azione: ascolto e monitoraggio delle povertà del territorio; accompagnamento e advocacy verso i cittadini-utenti più poveri di parola e di rappresentanza. E infine: chi sono i pubblici amministratori? Da quali percorsi arrivano? Quali sono state le loro “scuole”? È questo uno degli spazi della presenza dei fedeli laici nel mondo, luogo della testimonianza per di cittadini cristiani adulti. Le nostre parrocchie sono in grado di “prestare alla politica” uomini e donne appassionati del bene comune?
L’educazione alla mondialità e alla pace. La presenza sempre più massiccia di immigrati tra noi con i tragici percorsi di chi cerca asilo e futuro, ma anche il perdurare di aree di conflittualità armata in varie parti del mondo non dovrebbero mai distogliere nessuna comunità dalla presa di coscienza dei grandi problemi planetari, e spingere sia all’accorata preghiera penitenziale, sia a forme di impegno verso il Sud del mondo povero, valorizzando in termini educativi la conoscenza che può derivare dall’impegno di molte agenzie cattoliche e laiche.
Con quali criteri di misurare l’efficacia e la fecondità tutte queste azioni, impegni e attenzioni, che sono già vissuto quotidiano di molte parrocchie? Al di fuori della comunità cristiana, sarebbe buona cosa che la chiesa fosse percepita come presenza di prossimità e condivisione reali, una compagna di strada fedele e leale nel cammino storico di un popolo… una chiesa che rinnovasse almeno un po’ la stima di cui godeva la prima comunità di Gerusalemme. E, dall’interno, vale ancora il monito che Paolo VI rivolse nel ’72 al primo convegno delle Caritas: “Una crescita del popolo di Dio nello spirito del Concilio Vaticano II non è concepibile senza una maggiore presa di coscienza da parte di tutta la comunità cristiana nelle proprie responsabilità nei confronti dei suoi membri”.
monsignor Antonio Cecconi
(articolo pubblicato sul n.470/2015 di “Servizio della Parola”)