“Signori Giudici, vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà infatti facile ch’io possa venire a Roma perché sono da tempo malato. Allego un certificato medico e vi prego di procedere in mia assenza. La malattia è l’unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l’accusa che mi si fa in questo processo. Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini”.
E’ l’incipit della Lettera ai Giudici, quella che don Lorenzo Milani fece arrivare al Tribunale di Roma il 15 febbraio di cinquanta anni fa, in occasione del processo che dovette subire per apologia di reato, incitamento alla diserzione e disobbedienza civile a causa di un’altra lettera, quella “Ai Cappellani Militari”, in risposta proprio al comunicato di quest’ultimi contro i primi obiettori di coscienza.
Le due lettere, quella Ai Cappellani Militari e Ai Giudici – costituiscono uno dei passaggi più importanti che porteranno al riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza che arriverà soltanto con la legge del 1972.