Non aprire i cuori e le porte sarebbe un contro-Vangelo. La riflessione di monsignor Antonio Cecconi a partire dal documento della Cet

Il documento dei Vescovi della Toscana sull’accoglienza di richiedenti asilo e profughi, la discussione nelle sedi della politica e le misure che il Governo intende adottare sollecitano l’impegno educativo e le pratiche di solidarietà della comunità ecclesiale. A partire dai fondamenti evangelici di ogni attenzione e azione ecclesiale, di ogni formulazione di giudizio etico e di assunzione personale e comunitaria di responsabilità.

Proprio nelle festività che da poco abbiamo celebrato, i nostri Vescovi ci hanno esortato a chiedere nella preghiera «il coraggio e la gioia di farci prossimi, tenaci cercatori dell’Emmanuele nel volto del fratello accolto».

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C’è un mix di elementi che concorrono alla difficoltà dell’impresa: la pressione oggettiva causata dalla difficile gestione dei richiedenti asilo e profughi da parte degli organi dello Stato; la diffusione di sconcerto e paura fomentate da una parte della politica e dell’informazione (stampa, televisione e social), che talora sfociano in manifestazioni che è difficile non definire razziste; il calcolo di molti politici preoccupati di quanto l’una o l’altra presa di posizione inciderà sul consenso elettorale.

I cristiani, che non vivono fuori dal mondo, respirano anch’essi un’aria che si è fatta pesante ogni volta che si parla di accoglienza, ospitalità, integrazione, col rischio di indulgere verso mentalità e atteggiamenti improntati alla chiusura e al desiderio di espulsione. Qualcuno porta come motivo la «difesa della fede» rispetto a una presunta «invasione islamica».

I nostri Vescovi hanno ben presentato le motivazioni dell’accoglienza e l’invito a un impegno ancora maggiore per disporre «la comunità a diventare protagonista dell’incontro con i fratelli e le sorelle migranti», ricordando peraltro come «in questo quadro complesso, si erge la voce del Papa e i suoi reiterati, accorati appelli ad aprire i cuori e le porte, a ospitare lo straniero, a incontrare Cristo nel dramma delle famiglie e dei ragazzi in fuga».

Vorrei sommessamente aggiungere alcune considerazioni sui motivi di una certa tiepidezza che, nonostante gli alti e inequivocabili moniti del Papa e dei nostri Vescovi, circola all’interno di parrocchie, associazioni, ordini religiosi… Parto dalla diminuita sensibilità in tante realtà di Chiesa verso la missione «ad gentes» e l’impegno per lo sviluppo di quello che un tempo era il Terzo Mondo e che adesso è diventato davvero «un altro mondo»: nel senso che ci interessa sempre meno, che le attenzioni ecclesiali sono rivolte quasi esclusivamente «ad intra» sia per l’evangelizzazione che per il servizio della carità.

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Sono lontani i tempi in cui ItaliaCaritas, nella rubrica «Dai poveri si impara», ogni mese presentava esperienze dei paesi più poveri e però capaci di insegnare molto a noi ricchi. Penso sia ai missionari, sia ai molti volontari laici impegnati in progetti di sviluppo che quando rientravano ci arricchivano delle loro esperienze. Non sono nostalgico di passate stagioni, so bene che, grazie anche al Concilio, abbiamo scoperto che la missione è anche qui e che ogni popolo ha diritto a costruirsi i suoi modelli ecclesiali. E ammiro quanto con generosità e intelligenza si sta facendo in materia di economia solidale, commercio equo, nuovi stili di vita… Però mi sento di affermare che, da quando abbiamo smesso o diminuito di occuparci del fratello lontano, facciamo più fatica ad accoglierlo quando ce lo ritroviamo vicino. Mi sembra innegabile, nel vissuto delle nostre Chiese, la crisi di quella che don Tonino Bello ci insegnò a chiamare «convivialità delle differenze». È d’altra parte vero che il fenomeno si è sviluppato di pari passo a un analogo calo di attenzione della politica e della cultura: chi denuncia più il neo-colonialismo che pur in forme mutate è una delle cause delle migrazioni? A che cosa è ridotta, nella nostra politica estera, la cooperazione allo sviluppo? Intanto, l’Europa è sempre più incapace di pensarsi come un progetto comunitario di democrazia e solidarietà.

Tornando al versante ecclesiale, diciamoci anche come l’arrivo di preti e suore da altri paesi – in particolare dal Sud del mondo – sia iniziato e prosegua più come rimedio alla nostra «crisi di vocazioni» che come occasione di arricchimento interculturale della comunità ecclesiale.

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In definitiva: in mancanza di un quadro di riferimento ampio, le nostre Chiese rischiano l’autoreferenzialità, cioè l’opposto dell’apertura missionaria/profetica sia sui propri territori che verso il mondo. Lo stesso forte impegno di fronte alle crescenti povertà di casa nostra ci ha in qualche misura distratto dalle povertà (incomparabilmente più vaste) su scala planetaria, rischiando un approccio più assistenziale che profetico da parte delle Caritas e del volontariato sia cattolico che laico. Anche il forte impegno di accoglienza in atto verso i migranti non è sempre accompagnato da cammini di integrazione culturale e religiosa: passare dalla nostra risposta ai bisogni a come anche loro possono arricchire noi.

Ho elencato – accanto alla sfida dell’accoglienza e al dovere che ne deriva per chi crede in Gesù Cristo, presente anche nello straniero – alcuni motivi che ho creduto di individuare dietro la non pronta, non entusiastica e non corale adesione ai ripetuti appelli dei nostri Pastori. Non per scoraggiare e arrenderci, ma per affermare che ogni impegno ecclesiale, anche sul terreno della solidarietà, non può prescindere dall’idea di Chiesa che abbiamo coltivato, incluso il modo di interagire con la società e la politica. Ora che anche in Toscana ci sono territori amministrati da forze politiche ostili all’accoglienza, penso che ancor più le comunità cristiane possano/debbano rendersi presenti con i fatti e non solo con i discorsi. Non aprire i cuori e le porte, sarebbe un contro-Vangelo.

don Antonio Cecconi

articolo pubblicato da ToscanaOggi