Calci, venerdì 3 agosto 2018 – (da ToscanaOggi Vita Nova) «Le dico solo un dato per comprendere non solo l’importanza, ma anche la necessità di progetti come “Misericordia Tua”: il settanta per cento di chi esce dal carcere senza aver avuto accesso alle misure alternative torna a commettere reati. Percorsi come quello che abbiamo attivato a Calci sono fondamentali per dare speranza e prospettive future a chi vive l’esperienza della detenzione». Dal 19 giugno padre Marfi Pavanello, 55 anni, sacerdote dehoniano della comunità di Castelmaggiore (Calci), ha assunto la guida della Cappellania Carceraria, «ma il mio è il punto di vista di un religioso che frequenta quasi quotidianamente il “Don Bosco” di Pisa da più di un anno e mezzo dato che l’arcivescovo ha chiesto alla nostra congregazione di occuparsene praticamente da quando siamo arrivati in diocesi: sono entrato per la prima volta nel carcere cittadino in occasione delle celebrazioni di Natale di due anni fa e poco più di un mese fa ho sostituito nel ruolo di coordinatore il mio confratello Elio Della Zuanna che è stato nominato amministratore della parrocchia di San Casciano (Cascina) dove presto ci trasferiremo».
Chi la affianca in questo lavoro?
«Il modello è sempre figlio di quella grande intuizione di monsignor Plotti che, primo in Italia, decise di costituire una Cappellania del Carcere: siamo cinque sacerdoti, tre dei quali più assidui, e una religiosa. Facciamo tre catechesi e celebriamo altrettante messe la settimana: due il sabato pomeriggio, di cui una nella sezione femminile, e una la domenica mattina nella Cappella del giudiziario e del penale. A questi si aggiungono svariati colloqui, in base anche alle segnalazioni che ci arrivano dagli operatori».
Perché considera così importante quell’intuizione di monsignor Plotti?
«Per due motivi: in primo luogo lavoriamo in equipe e, dunque, c’è sempre la possibilità di confrontarsi sulle decisioni da prendere. Poi la Cappellania consente di assicurare assistenza spirituale e pastorale ai detenuti e a chi lavora in carcere mantenendo un forte radicamento nella chiesa diocesana. Penso, anzi, che questo modello potrebbe essere replicato anche in altri ambiti come, ad esempio, quello militare».
Che umanità ha trovato dietro le sbarre del “Don Bosco”?
«Intanto stiamo parlando, di fatto, di una comunità di 256 reclusi, di cui 35 donne e 140 stranieri. A cui vanno aggiunte le guardie e gli altri operatori carcerari. Sono persone segnate profondamente dal reato che hanno commesso, con vissuti e storie familiari molto complesse e in molti casi anche con problemi di dipendenza e salute mentale. I più fortunati sono quelli che hanno mantenuti legami familiari: possono contare su un colloquio e una telefonata settimanale. Loro sono quelli che stanno meglio».
In un contesto del genere che ruolo può giocare la Cappellania?
«Noi siamo un ponte fra dentro e fuori: l’ottanta per cento del nostro impegno, in realtà, è o dovrebbe essere dedicato alle comunità cristiane e alla società civile per far capire che anche chi ha sbagliato, può cambiare».
Obiettivo non semplice in un’epoca caratterizzata dalla paura e dall’emergenza sicurezza.
«E’ vero e in tal senso, più delle parole e delle prediche, conta la testimonianza. A Castelmaggiore ospitiamo un detenuto ammesso alle misure alternative. Nei momenti in cui non lavora vive insieme a noi. Quando lo raccontiamo, anche il punto di vista di chi ci ascolta cambia»