Calci, sabato 29 settembre 2018 – Il Monte Serra è il “mio” monte. Dopo, di monti, ne avrei conosciuti e amati tanti altri, ma non avrei mai dimenticato quella prima camminata partendo dall’arco di Sant’Andrea, dove il babbo lasciò la bicicletta con cui mi aveva portato sulla canna. Avevo sei anni…
Non c’era la strada, c’erano sentieri battuti e ben noti, prima tra gli olivi e poi nel bosco: Caprile di Sopra, San Bernardo, Le Porte, Prato a Ceragiola. La meta era la Fonte del Pruno, col suo favoloso getto d’acqua ristoratore. Tre o quattro anni dopo salii ancora, iniziavano i lavoro per la strada che saliva da Buti, quella volta arrivammo proprio sotto le torri e il babbo mi autorizzò a fare con il lapis un innocente autografo sull’insegna metallica della Rai.
Il Monte Serra, archetipo per me di ogni montagna (prima delle Apuane, delle Dolomiti, dei ghiacciai del Monte Bianco e dell’Adamello, perché la voglia e la gioia faticosa di salire mi nacque dentro camminando per i suoi sentieri), il Monte Serra il cui verde dalla mia finestra di Mezzana assumeva un colore azzurrino, il Monte Serra che poi sarebbe diventato palestra ciclistica di grandi campioni … quel Monte Serra non c’è più: bruciato, devastato, scarnificato, diventato un inferno prima di fuoco e ora di cenere, teatro spettrale di scheletri di alberi morti, odore pervasivo di bruciato, castagni che non faranno più castagne, pini che non faranno più ombra, olivi che non daranno più olio, case da cui scappare per non morirci dentro.
Cosa resta? Resta la memoria indelebile dell’impegno tenace, caparbio, generoso dei Vigili del fuoco e delle squadre antincendio, a cominciare dal GVA calcesano, in alcune situazioni autentici salvatori di vite, esempio di oblatività, dediti a prendersi cura degli altri più che di se stessi. Resta la tenacia di tutto un paese, guidato dal suo giovane sindaco e dagli altri suoi amministratori capaci di esserci ininterrottamente tutta una notte, un giorno e un’altra notte ancora. Resta la solidarietà che in questi giorni di prova si è fatta palpabile, a Calci è parso di respirarla nell’aria, quasi a riempirsene gli stessi polmoni prima invasi da quel maledetto fumo nero. Resta la capacità di superare ogni sorta di divisioni, differenze e schieramenti per occuparci, concretamente e tutti insieme, del bene comune.
Una solidarietà che, come e più del fumo, è volata lontano: di là d’Arno, a Pisa, a Livorno e oltre. Messaggi di solidarietà partiti dal cuore ci hanno invaso sui telefonini e sui social, non solo discorsi ma cose concrete: offerte di aiuto, porte aperte per ospitare, disponibilità di tempo. La palestra Libertas, inizialmente attrezzata con un centinaio di brandine, è stata molto abitata di giorno ma quasi vuota di notte perché molte famiglie hanno accolto in casa loro le famiglie di Montemagno e altri sfollati. I giorni dell’incendio sono stati per i calcesani e per molti altri un laboratorio di solidarietà, un apprendistato di prossimità, una scuola di fraternità.
Ora tocca a tutti noi continuare, la mentalità solidale deve restare, attaccarsi addosso come e più del fumo, diventare quasi una seconda pelle, tessuto connettivo di una comunità che come i suoi olivi e i sui boschi vuole ancora di più onorare il suo motto “Viret semperque virebit”: verdeggia e sempre verdeggerà. Di una linfa vitale che adesso deve diventare desiderio e anzi passione di vita buona, nuova e feconda per il nostro monte, per le piante, per le case e soprattutto per le nostre coscienze e i nostri cuori,.
don Antonio Cecconi
Pievano di Calci
PS – qualcuno ha detto e scritto che ha bruciato non il Monte Serra, ma il Monte Pisano. Ma per me, al di là della stretta denominazione geografica, conta il Serra come simbolo, quello ben visibile anche da lontano per le sue antenne, verso cui guardi d’inverno per scoprire la prima neve e che quando lo scorgi ritornando da lontano ti dice che sei vicino a casa… e i cui fianchi adesso stenterai a riconoscere per la devastazione di questo terribile incendio.