Nel mondo la violenza in crescita. Nel 2017 i conflitti sono stati 378, di cui venti guerre ad elevata intensità. Diminuiscono i conflitti non violenti, di tipo politico-territoriale, e aumentano le crisi violente: dalle 148 situazioni del 2011 si è passati alle 186 del 2017 (+25,7%).
Conseguentemente il numero dei profughi costretti a fuggire a causa di tali conflitti è in costante crescita ed è arrivato a sfiorare i 70 milioni di persone. Nel 2017, ogni giorno oltre 44mila esseri umani hanno dovuto abbandonare la propria cosa, spesso a causa di conflitti: rispetto al 2016 l’incremento è stato del 40%.
Eppure non è la guerra la principale causa di morte per arma da fuoco, circa 500mila persone all’anno: nel 2016, infatti, le vittime di guerra sono state 100mila, 34mila quelle del terrorismo e 385mila a causa di omicidi intenzionali, a opera del crimine o altri individui.
Sono alcuni dei dati approfonditi in “Il Peso delle armi”, il sesto rapporto sui conflitti dimenticati pubblicato da Caritas Italiana in collaborazione con le testate Avvenire e Famiglia Cristiana e del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca.
Analisi da cui emergono almeno due stridenti contraddizioni. La prima è quella tra un Paese che da un lato ripudia formalmente la guerra e dall’altro non esclude la possibilità di vendere armi e armamenti a nazioni coinvolte in conflitti armati. L’Italia, infatti, è fra i primi dieci Paesi esportatori di armi nel mondo: nel 2017 le autorizzazioni all’esportazione hanno superato i 10miliardi di euro e di esse oltre la metà (57%) fanno riferimento a nazioni non appartenenti all’Unione Europea o addirittura alla Nato, tra cui Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi, tutti impegnati nella sanguinosa guerra dello Yemen. Il tutto mentre, secondo un sondaggio demoscopico realizzato da Swg e pubblicato nel Rapporto, metà degli italiani sarebbe favorevole a limitare la produzione italiana di armi, evitando soprattutto di esportarle dove c’è guerra, mentre poco meno di un terzo ritiene che si tratti di un’industria da sopprimere e riconvertire.