Rapporto povertà Caritas 2019: ”Un centro d’ascolto in ogni unità pastorale”. La proposta nelle conclusioni del direttore don Emanuele Morelli

Come ogni anno, tra Natale e Capodanno, regaliamo a tutta la diocesi e alle istituzioni della società civile il “Rapporto povertà” della nostra Caritas diocesana. Siamo arrivati alla quattordicesima edizione. Un “regalo scomodo” perché racconta storie di fatica e di sofferenza, sottolinea l’incapacità, per i servizi della comunità ecclesiale, di andare oltre l’assistenza ed evidenzia limiti e inadeguatezze del nostro sistema di welfare.

“Neanche voi siete capaci di comprendere?” (cfr. Mc 7,8). Questo interrogativo che Gesù pone ai suoi discepoli è il titolo del rapporto di quest’anno.

Come ci ricorda Mons. Roberto filippini, nell’introduzione al Rapporto povertà di Caritas Toscana 2019, “L’invito di Gesù è dunque a ripercorrere l’esperienza fatta e a prestare attenzione proprio ai numeri delle folle sfamate e del cibo a disposizione, come di quello alla fine avanzato. Numeri diversi… tutti molto suggestivi ed emblematici: cinque, dodici, quattro, sette… Non è il momento di entrare in una lettura esegetica minuziosa, ci basti dire che quei numeri non solo svelavano la sua potenza divina, ma proprio essi fanno di quei prodigi dei segni e dunque veicoli di comunicazione, bisognosi di un’operazione… semeiotica, che ne traduca il significato: “non comprendete ancora?” Anche i numeri di questo Rapporto forniscono dei messaggi che interpellano la Chiesa e la Società e che non possono lasciare freddi e indifferenti. Non si tratta solo di un’operazione asetticamente conoscitiva, ma di una comunicazione che provoca ed esige delle risposte efficaci e risolutorie”.

Quindi, proprio i numeri, le cifre e le tabelle del “XIV Rapporto povertà Caritas Pisa” chiedono di essere letti, interpretati, decifrati e diventano interrogativi che ci interpellano, chiedono conversione a livello ecclesiale e nuove politiche a livello istituzionale.

Nel rapporto si evidenzia la presenza in città di un’incidenza alta di persone senza dimora rispetto al dato nazionale. Fatto salvo che la qualità dei servizi offerto dalla rete di protezione sociale sul nostro territorio svolga una funzione attrattiva, siamo chiamati a cogliere la sfida di una prossimità responsabile a questa tipologia di persone. La scelta di sperimentare risposte diverse e nuove, come “housing first” va nella direzione giusta. Un percorso che deve essere potenziato sperimentando anche altre azioni di housing innovativo.

Nel rapporto si evidenzia come la mancanza o la perdita della residenza sia elemento di infragilimento radicale. La residenza è “conditio sine qua non” per usufruire dei diritti e dei servizi di base. Auspichiamo una nuova riflessione sullo strumento delle “residenze di soccorso” collegato ad una più consapevole presa in carico delle persone fragili da parte delle istituzioni e di tutta la società civile.

Un altro dato significativo del rapporto è quello relativo alla cronicizzazione dei cammini di povertà. Questo rapporto ci dice che nel 2018 sono state 485 le persone conosciute da più di 6 anni. Un dato in crescita costante negli ultimi anni.

Una prima riflessione, che ci chiede una profonda autocritica, è che i nostri servizi non riescono a sganciare le persone incontrate dalla necessità di essere aiutate. Si genera una sorta di “dipendenza”, in alcuni casi anche cercata, dall’aiuto dato. Siamo convinti che mentre assistere sia a volte necessario, soprattutto nella fase acuta dell’emergenza, l’assistenzialismo sia sempre dannoso. Siamo convinti della nessaria conversione dei nostri servizi verso percorsi promozionali che riconsegnino decisamente le persone alla dignità che gli è propria. Dobbiamo domandarci, tutti, insieme, che cosa possiamo fare per invertire questa tendenza, per fare in modo che i nostri interventi liberino e non schiaccino.

Un altro dato che ci deve far riflettere è che le problematiche familiari sono fra le problematiche più rilevanti delle persone che incontriamo. Ques’anno hanno superato anche quelle relative a all’abitare. Nelle conclusioni del Rapporto povertà di Caritas Toscana scriviamo: “In questo senso, è necessario aprire in primo luogo una riflessione sulle misure di sostegno alle famiglie, capaci di prendersi carico non solo dei bisogni degli adulti che compongono i nuclei, spesso frammentati, fratturati, soli, ma anche i bambini che vi abitano portatori di bisogni inespressi e spesso inascoltati. I bisogni delle famiglie fragili aprono una finestra anche sulla necessità di immaginare sempre l’accompagnamento delle storie di povertà come accompagnamento di più soggetti, di ecosistemi familiari, insistendo non solo su misure a sostegno degli adulti che costituiscono il nucleo, ma anche dei bambini, portatori di bisogni non detti, inespressi, eppure tragicamente presenti e mortiferi per un futuro di autorealizzazione piena. Questa consapevolezza invita a immaginare servizi di accompagnamento personalizzati per ogni nucleo familiare, in un’attenzione alle storie individuali, affiancamento tailor made, che puntino sulla riattivazione delle capacità residue e sulla voglia di riscatto delle persone che sperimentano fragilità”. Sono considerazioni che provocano e ci interpellano prima di tutto i decisori delle politiche pubbliche a sperimentare progetti e servizi che approccino le problematiche familiari in maniera complessiva.

Nel rapporto emerge anche quest’anno un altro dato allarmante: la povertà educativa.

Nell’esperienza dell’Emporio Caritas la presenza di tanti minori, figli delle famiglie che usufruiscono di questo servizio, ci deve confrontare e non ci può far dormire sonni tranquilli. Sono bambini e bambine che iniziano il loro percorso vitale con un deficit di opportunità rispetto ai loro coetanei perché le loro famiglie non hanno risorse da investire su percorsi culturali, sportivi o anche di semplice socializzazione e svago. Scriviamo ancora nelle conclusioni del Rapporto Regionale 2019: “L’impegno per la costruzione di reali percorsi di contrasto alla povertà educativa non riguarda (…) solo le istituzioni scolastiche, ma tutto il territorio e tutte le comunità. Chiede alleanze nuove tra istituzioni, terzo settore, cultura e sociale, famiglie e docenti, riportando la formazione e la cultura al centro dell’interesse della politica regionale, riprendendo sul serio il motto del “non uno di meno”.

Ci domandiamo che fare con questi “minori” per garantire pari opportunità di crescita, prima di tutto, in umanità? Quali progetti, quali sostegni? Quali nuove opportunità?

L’indice di povertà Caritas ci segnala, di nuovo, la realtà delle periferie. Pisa è una città fatta di quartieri che hanno un identità. Quando i “quartieri” diventano “periferie” significa che si sono persi legami, relazioni, senso del bene comune. È importante che le periferie tornino ad essere quartieri nei quali agire il contrasto alla povertà, suscitando e rafforzando di nuovo il concetto di corresponsabilità all’interno delle comunità, dove le persone, tutte, possono fare la loro parte. Da questo ragionamento, in un’ottica di welfare generativo, non sono esclusi i poveri.

Anche le comunità parrocchiali dei quartieri periferici della città devono sentirsi coinvolte in questo processo. La parrocchia è, per sua natura, casa tra le case, presenza di chiesa inserita in un determinato territorio, con quelle persone concrete che, se manifestano segni di disagio, sono sicuramente anche capaci di far emergere risorse e ricchezza di doni e carismi per il bene comune.

 

Queste riflessioni indicano, in maniera evidente, anche il cammino che la nostra chiesa pisana è chiamata a fare. Individuiamo tre percorsi.

Essere e fare chiesa

La chiesa è radicata territorialmente. Le parrocchie sono le cellule vive del tessuto ecclesiale.

L’incontro con i poveri mette in luce la qualità della vita comunitaria, è criterio di verifica della fedeltà al vangelo e provoca le comunità parrocchiali ad essere sempre più spazio accogliente e tempo favorevole per “fare casa”, offrire relazioni corte e calde con chi è escluso, marginalizzato, reso ultimo. La chiesa in uscita, ospedale da campo, come ci ricorda papa Francesco, è una chiesa che non preferisce le sacrestie ma, dall’incontro con il risorto, trae il coraggio di abitare il margine, di essere chiesa “estroversa”. Questa opzione preferenziale la fa essere compagna di viaggio di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, come ci ricorda l’apostolo Pietro: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga” (At 10,34-38).

Quando le nostre parrocchie sono più prudenti che coraggiose vedono lentamente esaurire la forza evangelica, rischiano di diventare luoghi senz’anima e hanno bisogno di lasciarsi irrorare dalla forza dello Spirito. Siamo chiamati a credere, come ci ricorda sempre papa Francesco, che i poveri ci evangelizzano.

L’ascolto

L’ascolto per la comunità ecclesiale è il “dono dei doni”. Il “cuore capace di ascoltare” è ciò che ogni discepolo deve chiedere al Signore come dono. Come chiesa che abita il margine, le periferie e le terre di confine siamo convinti che i “Centri d’Ascolto” siamo il segno più bello del quale una comunità si può dotare per lasciarsi evangelizzare dai poveri.

Sarebbe auspicabile che almeno ogni Unità Pastorale avesse, oltre alla Caritas dell’Unità Pastorale, anche il suo Centro d’Ascolto, non necessariamente nella forma di “sportello di ascolto”. Crediamo importante che alcune persone si sentano vocazionalmente chiamate essere “antenne”, “avamposti”, “porte aperte” che intercettano, in una sosta di ascolto diffuso, il “grido dei poveri” per aiutare tutta la comunità, da cui sono mandati, ma non delegati, a prendersene cura.

La rete

Per essere chiesa è necessario essere in comunione. E la comunione è ciò che nel mondo degli uomini chiamano “rete”. E a volte, la comunione, è la grande assente dalle esperienze ecclesiali.

Ecco perché fare rete, fare sistema è la sfida per la comunità ecclesiale.

È vero che se abbiamo inventato il “campanile”, il “campanilismo” è il frutto del maligno!

Il campanilismo è la pretesa di bastare a se stessi; è la presunzione di essere unico elemento determinante in un mondo sempre più plurale e complesso; è l’indice puntato verso il cielo che gode del fatto che lo stolto guardi l’indice e non ciò che è indicato; è incapacità di costruire comunità inclusive; è autoreferenzialità, è considerarsi il centro assoluto del proprio microcosmo.

La rete-comunione invece è la scelta decisa e precisa di costruire percorsi che esaltano il senso del “noi”; che mettono la persona povera al centro (cfr. Lc 6,6-11 La guarigione dell’uomo dalla mano inaridita); che scelgono il bene comune che è sempre bene di tutti e bene per tutti, a partire dagli ultimi; che sanno lavorare insieme, gioire insieme, piangere insieme; uomini e donne che raccontano il loro essere discepoli del risorto a partire dalla capacità di amarsi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. (Gv 13,34-35)

 

Sarebbe sufficiente investire testa e cuore su questi tre percorsi per dare nuova vita alle nostre parrocchie. Ivano Fossati canta: “Serve più coraggio che prudenza!”. Per essere la chiesa del Dio che si fa prossimo alla nostra vita nel segno del “bambino”, l’incontro con i poveri è necessario quanto il mettersi in ascolto della Parola di Dio. Non possiamo ascoltare il Signore che ci parla nella parola e non ascoltarlo nella parola dei poveri. Così ho scritto nelle conclusioni pastorali del Rapporto Regionale povertà Caritas: “Ci lasciamo verificare dalle parole di Papa Francesco che nei sui gesti quotidiani sa esprimere una vera povertà cristologica o una cristologia della povertà, con accenti che ricordano i profeti dell’antica alleanza o i padri della chiesa. Significativamente ha detto più volte che “il povero è un vicario di Cristo”, proprio lui che mai si definisce il vicario di Cristo. Con audacia si è anche espresso manifestando questo desiderio evangelico: “Quanto vorrei che le comunità in preghiera, quando entra un povero in chiesa, si inginocchiassero in venerazione allo stesso modo come quando entra il Santo Sacramento” (Alla Caritas di Roma, 28 aprile 2015). Anche la Chiesa pisana, della quale la Caritas è espressione ed esperienza, consapevole dei propri limiti e delle proprie mancanze si “inginocchia” davanti a tutte le persone che incontra perché è convinta che essi sono il sacramento storico, la presenza reale di Gesù, Signore della vita.