Pisa, domenica 23 dicembre 2018 – Ancora una volta presentiamo l’annuale “Rapporto povertà” della nostra Caritas diocesana, non tanto per vantarci di ciò che la carità dei fedeli ha realizzato durante il 2017 attraverso le mense per i poveri, le docce, la Cittadella della Solidarietà, i pacchi spesa, il sostegno al microcredito e tante altre forme di aiuto nei confronti di quel flusso ininterrotto di persone in difficoltà che hanno fatto ricorso ai nostri Centri di Ascolto, ma soprattutto per riflettere e, per quanto possibile, riuscire a capire ciò che sta accadendo e quali sono le tendenze in atto per un fenomeno, quello della povertà, che non sarà mai possibile sradicare del tutto, perché, come un camaleonte, continuamente cambia pelle, inserendosi anche in ambiti di vita che pensavamo immuni da questa “malattia” sociale.
In effetti, analizzando dati e percentuali, ci si accorge che il problema povertà, se un tempo aveva una connotazione soprattutto individuale, anche se diffuso in maniera generalizzata, oggi è problema che riguarda la società in quanto tale e una vita comunitaria che diventa sempre più precaria. Il titolo “Comunità precarie” dato al rapporto di quest’anno dice infatti proprio questo.
E’ quanto mai indicativo che in una cultura dell’individualità portata alla esasperazione, in cui l’individuo viene assolutizzato in maniera abnorme e diventa sempre più il parametro per scelte sociali, politiche, legislative ed economiche, alla fine si rileva che alla base del disagio che la nostra società sta vivendo e che si dimostra sempre più soggetto ad esplosioni incontrollabili, c’è la precarietà delle relazioni comunitarie, la perdita del senso di appartenenza e il rifiuto spesso irrazionale nei confronti di chi avrebbe più bisogno di accoglienza e di solidarietà.
Di fatto, la frantumazione dei legami familiari, della condivisione sociale, della ricerca del bene comune, frutto del non ascolto reciproco, dell’ostracismo nei confronti dell’altro e del diverso, non può che impoverire il contesto di vita comunitaria, anche se proprio questo impoverimento diventa occasione per sentirne ancora più profondamente il bisogno. Il bisogno di unità e di incontro, privato dei valori fondanti di riferimento, rischia però di scadere in forme aggregative capaci solo di rivendicazioni individualiste e magari violente senza essere in grado di cercare davvero ciò che è necessario a tutti nell’ottica del bene comune.
Lo sforzo che ci viene chiesto è quello di non chiuderci in una visione individualista nel considerare problemi e necessità del nostro tempo: se la valorizzazione della individualità di ogni essere umano è cosa buona e giusta, è però deleteria e tremendamente disgregante la sua esasperazione. Infatti l’essere umano, per sua natura, non è per essere e rimanere solo, bensì per stare in relazione con tutti e con tutto. Nessuno si è fatto da sé, bensì tutti abbiamo ricevuto la vita dai nostri genitori e a nostra volta questo dono siamo chiamati a trasmetterlo ad altri perché ci sia continuità nella vita dell’umanità e nella storia del mondo. Tutti siamo per natura chiamati e in qualche modo attrezzati per relazionarci con tutto ciò che ci circonda. Relazioni che danno respiro interiore e culturale; che facilitano la comprensione reciproca; che stimolano al sostegno vicendevole, anche se certamente obbligano a qualche rinuncia e sacrificio per un bene maggiore e più ampio del solo bene individuale.
Tutto questo però è oggi minato alla radice. Il segno stesso della denatalità così pesante come è quella che stiamo vivendo in Italia e in Toscana in particolare, dice la supremazia dell’individualismo sulla capacità di gratuità e di dono. La vita infatti non si compra né si vende, bensì si dona. Se però non c’è spirito di gratuità e disponibilità al dono, pur di soddisfare i propri bisogni o desideri, se questo è “possibile” sul piano della realizzazione materiale, si è pronti a sfidare ogni logica morale e valoriale.
In conseguenza di questo, ciò che ne soffre sempre di più è la coesione comunitaria, oggi messa alle corde da strategie ideologiche capaci solo di partorire politiche miopi e frantumatrici di ogni relazione bella.
Se a livello sociale parliamo di “coesione comunitaria” a livello cristiano parliamo di “comunione comunitaria” degli uomini e delle donne che vivono nelle singole comunità di appartenenza. Non si tratta solo di diversità di linguaggio, bensì di un contenuto più profondo che un cristiano non deve mai dimenticare perché il nostro riflettere non si fermi soltanto alla considerazione di dati numerici o di espressioni di tipo sociologico.
Come non esiste una legalità senza moralità, non esiste nemmeno possibilità di coesione comunitaria senza essere consapevoli della necessità di una relazione interpersonale ancora più profonda di quella che deriva dalla conoscenza reciproca o dalla condivisione di scelte pragmatiche, che nell’esperienza cristiana indichiamo col termine “comunione”.
“Comunione” è infatti esperienza soprannaturale di una relazione d’amore che ci è donata da Dio stesso grazie alla nostra fede in Cristo; è circolazione in noi della vita di Dio che ci permette di respirare la sua presenza e il suo amore quale segno della sua paternità nei nostri confronti e del nostro essere fratelli gli uni degli altri; è partecipazione allo sguardo di Dio che riconosce in ogni essere umano ciò che lo fa somigliante a se stesso, dal momento che tutti siamo stati creati ad immagine e somiglianza dell’unico Creatore.
Per questo la Chiesa non può e non deve mai dimenticare la ricchezza soprannaturale di cui è portatrice, custode e annunciatrice e che ci spinge ad andare incontro ai bisogni di ogni uomo e di ogni donna, non solo per un impegno filantropico verso ogni essere umano che condivide la mia stessa umanità, bensì per accogliere in ogni creatura umana la presenza di Gesù che si è fatto come noi e si è donato a noi per riunire in una sola famiglia i dispersi figli di Dio.
Per questo, l’esercizio della carità, è strumento indispensabile per costruire comunità di fratelli che si vogliano bene, si stimino vicendevolmente e siano pronti ad accogliersi soprattutto nel momento del bisogno; nello stesso tempo la carità diventerà sempre più efficace e fattiva quanto più sarà progettata e coltivata da comunità animate dalla comunione che è dono dello Spirito di Dio.
L’auspicio è che anche il Rapporto Caritas 2018, aiuti tutti coloro, credenti e non credenti, che hanno a cuore il bene comune e la salvaguardia e la crescita della dignità di ogni persona umana, a mettersi in gioco, lavorando soprattutto sul piano educativo e formativo, perché non soltanto nelle scelte della comunità ecclesiale, ma anche nelle scelte che istituzionalmente deve fare la comunità civile, si tenga conto del bisogno di dare nuova consistenza alle nostre comunità perché termini come condivisione, inclusione, solidarietà e sussidiarietà, non siano soltanto parole da vocabolario, bensì atteggiamenti e scelte di vita con le quali dare concretezza alla speranza di futuro che tutti ci portiamo dentro, e che ha bisogno di incarnarsi nella quotidianità del nostro vivere sociale.
La pubblicazione del Rapporto Caritasè pure occasione propizia per dire a tutti coloro che si impegnano sul versante della carità e della solidarietà verso chi soffre, un grazie cordiale e fraterno da parte della Chiesa pisana, e per incoraggiare tante altre persone che sentono la chiamata al dono di sé nella gratuità del servizio a fare un passo avanti: c’è spazio per tutti; c’è possibilità di servizio per ognuno; c’è soprattutto a disposizione la possibilità di fare esperienza di quell’Amore che viene dall’Alto e che unico riempie di gioia la vita anche nella sofferenza e nel dolore: quella gioia che nessuno ci può togliere perché segno e frutto della presenza nascosta, ma reale del Cristo buon Samaritano dell’umanità.
+ Giovanni Paolo Benotto, Arcivescovo