(da L’uomo Planetario, Ernesto Balducci, 1985) – E’ qui, su questo limitare fra il passato e il futuro, che mi è possibile, senza niente rinnegare di ciò che sono, intuire una mia nuova identità di credente. L’uomo planetario è l’uomo postcristiano, nel senso che non si adattano a lui determinazioni che lo separino dalla comune degli uomini. Liberata dalle sue obiettivazioni ontologiche e restituita alla sua dinamica esistenziale, che cos’è l’Incarnazione se non un’immersione di Dio nell’umano, in virtù dell’amore che di Dio è la stessa essenza? I cappellani militari che si sciolsero dai fianchi i salvagente per offrirli ai fratelli e calarono a picco nell’oceano danno perfetta figura al mistero in cui si nasconde il mio Dio. La qualifica di cristiano mi pesa.
Mi dà soddisfazione sapere che i primi credenti in Cristo la ignoravano. Il termine fu inventato ad Antiochia, nel 43, dai burocrati e dai militari romani che, per ragioni di ordine pubblico, avevano bisogno di identificare in qualche modo certe comunità poco conformi alle regole della società. Dunque, un’invenzione del Potere, che distingue per meglio dominare. Come le schedature, le identificazioni sociologiche rientrano nelle necessità del Panopticon: chi vi si adatta, asseconda già con questo un Progetto d’integrazione mondana.”Non sono che un uomo”: ecco un’espressione neotestamentaria in cui la mia fede meglio si esprime. E vicino il giorno in cui si comprenderà che Gesù di Nazareth non intese aggiungere una nuova religione a quelle esistenti, ma, al contrario, volle abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello all’uomo e specialmente all’uomo più diverso, più disprezzato. Egli disse: quando sarò sollevato da terra attirerò tutti a me. Non prima, dunque, ma proprio nel momento in cui, sollevato sulla croce, egli entrò nell’agonia ed emise il suo spirito, spogliato di tutte le determinazioni. Non era più, allora, né di razza semitica, né ebreo, né figlio di David. Era universale, com’è universale il nulla della morte, e com’è universale la qualità che in quell’annullarsi divampò: l’amore per gli altri fino all annientamento di sé. E in questo annientamento per amore la definizione di Gesù, uomo planetario. Prima di morire gli avevano gridato: “Se sei figlio di Dio, salva te stesso”. Ma non poté salvarsi perché aveva deposto fin dal nascere la cintura di salvataggio. Fu così che discese agli inferi. Perfino il suo Dio l’aveva abbandonato nel momento in cui, scivolato nell’oceano della morte, divenne per sempre il fratello di tutti i disperati. La sua universalità va riposta qui, in questo suo libero insediarsi, per amore degli uomini, nel cuore della totale negatività.
Tra me e lui ci sono sette pareti d’ideologia, perché io ho imparato il suo nome con la spada in mano, come voleva la pedagogia dell’intransigenza. Le sette pareti stanno cadendo, una dopo l’altra, e dopo ogni caduta mi sembra di capire meglio che significhi la sua sequela. Tempo fa un mio fratello di fede, anzi un vescovo, ha detto che prendere la croce e seguire Gesù vuol dire scegliere il disarmo unilaterale. Paradosso profondo, in cui mi ritrovo. Ma i paradossi che dovremo dire sono innumerevoli. Gesù rivelò cose che solo a noi è dato capire, perché solo oggi la misura dell’iniquità ha raggiunto il colmo. Quando sento ripetere che il messaggio di Gesù è universale perché egli è il Logos nel quale, dal quale e per il quale tutte le cose sono state create, una specie di immenso sbadiglio mi sale dal profondo, come dinanzi ad una verità resa vacua dall’abuso. Ma quando rifletto in silenzio sui gesti concreti con cui egli, mettendosi contro gli uomini della religione e del potere, andò incontro ai poveri, ai miti, agli afflitti, ai perseguitati è come se scorgessi nel buio un sentiero di luce, il sentiero che ancora oggi discende alla profondità degli inferi dove il senso e il non senso, la vita e la morte, l’amore e l’odio si confrontano. Qui tutte le identità perdono di senso per lasciar posto all’unica che ciascuno è in grado di dare a se stesso, al di fuori di ogni eredità, semplicemente con l’assumersi o col rigettare le responsabilità del futuro del mondo. Se noi lasciamo che il futuro venga da sé, come sempre è venuto, e non ci riconosciamo altri doveri che quelli che avevano i nostri padri, nessun futuro ci sarà concesso. Il nostro segreto patto con la morte, a dispetto delle nostre liturgie civili e religiose, avrà il suo svolgimento definitivo. Se invece noi decidiamo, spogliandoci di ogni costume di violenza, anche di quello divenuto struttura della mente, di morire al nostro passato e di andarci incontro l’un l’altro con le mani colme delle diverse eredità, per stringere tra noi un patto che bandisca ogni arma e stabilisca i modi della comunione creaturale, allora capiremo il senso del frammento che ora ci chiude nei suoi confini. È questa la mia professione di fede, sotto le forme della speranza. Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo.
Ernesto Balducci