Mercoledì 19 febbraio 2014 ore 9 Città del Vaticano, si è appena conclusa la Santa Messa officiata per noi di fronte alla tomba dell’apostolo Pietro. Noi siamo un gruppo eterogeneo di persone che praticano a vario titolo il “pianeta carcere”, io sono uno dei 17 detenuti presenti. Percorriamo il breve tratto che separa la Basilica di San Pietro dalla nostra destinazione. Sono convinto che nessuno dei presenti sia pienamente consapevole, io in primis, della straordinarietà di ciò che accadrà.
Dopo qualche minuto, 33 persone emozionate fissano una porta in legno e vetro smerigliato cercando di cogliere un movimento, un indizio che anticipi il momento del suo ingresso. Sono altresì convinto, quasi certo, che tranne (forse) i preti e le suore che ci accompagnano, nessuno abbia mai accarezzato il sogno di ricevere un dono tanto grande, maggiormente chi sta nel frattempo pagando un debito contratto con la società e la giustizia degli uomini e, conseguentemente, qualche peccatuccio in più …
Dentro di me risuonano le parole di Gesù: “Rimetti a noi i nostri debiti”. Papa Francesco sta per raggiungerci in un’accogliente sala, arredata da due librerie informali, all’interno di casa Santa Marta. La gioia e la tensione mi crescono dentro, in modo proporzionale, intorno a me, gli stessi sentimenti si palesano in sorrisi tirati e toni di voce lievemente alterati. La porta, d’un tratto, si apre e il Papa entra. Nessun annuncio formale, non vedo guardie svizzere o d’altro genere. Sin dal primo momento Francesco è riuscito a spiazzarmi, sta lì, in mezzo a noi e ci accoglie come si farebbe con dei vecchi amici. Abbraccia e bacia ognuno di noi, guardandoci negli occhi. Quando posa il suo sguardo nei miei, già velati e umidi, capisco che sto vivendo un momento speciale ed irripetibile, non solo per la singolarità di questo incontro ma anche per le emozioni fortissime che sto provando e che proverò. Penso:”ecco il sale della vita”.
Dopo le presentazioni e la consegna dei doni, preparati per l’occasione da alcuni dei miei compagni, nell’alternanza di momenti di leggerezza in cui Papa Francesco scherza con noi e momenti di intensità tale che le lacrime sgorgano ovunque mi volti, accade ciò che nessuno aveva previsto: carcerati, magistrati, preti, educatrici e suore, un’assistente volontaria, un direttore di istituto e un assistente di polizia penitenziaria. Tutte le differenze, i ruoli, gli “status” cessano di esistere. Francesco, uomo, padre dolcissimo che ci confessa di sentire il bisogno delle nostre preghiere e dell’aiuto della Madonna “madre buona” alla quale chiede consiglio e perdono per sé oltre che per tutto il mondo. Francesco che appare quasi imbarazzato nel sentirsi chiamare Santo Padre e felice e a suo agio nel potersi definire prete. Questa persona incredibilmente umile, ci rende tutti uguali, gregge col pastore, famiglia insieme al padre, Chiesa, con lui, davanti a Dio.
Devo ora fare un breve salto indietro; da più di due anni la lotta tra Fede e razionalità che ha sempre caratterizzato la mia religiosità si era fatta battaglia cruenta. Da quando, conosciuti don Roberto e suor Cecilia della cappellania del carcere di Pisa, ho intrapreso un cammino di fede ed un percorso di conoscenza della parola di Dio. Cammino fatto di molti dubbi e altrettanta speranza, momenti di luce ed abbandono ai misteri e di buio pesto e resistenza, nel quale la mia idea di Chiesa si andava formando ed operavano, rendendomi critico, la mia naturale diffidenza nei confronti delle istituzioni, gli studi di sociologia, l’amore per la storia e il turbamento che spesso suscitavano in me le Sacre Scritture. Per tutto ciò, mentre l’incontro volge al termine, la consapevolezza di quello che è avvenuto fa si che, non potendomi più trattenere, pianga un pianto scomposto, liberatorio (ed anche un po’ imbarazzante per un detenuto non più di primo pelo).
Ho capito che il mio cammino, per quanto lungo ancora, ha finalmente un punto fermo, dono di Francesco e del suo carisma. La mia Chiesa esiste anche all’interno della bi-millenaria istituzione la cui travagliata storia ha spesso messo in crisi la mia fede. Di più, con Francesco, grazie a lui, la mia Chiesa comprende anche l’istituzione. Non perfetta, senz’altro, ma perfettibile. Chiesa di uomini e donne, per gli uomini e le donne, Chiesa in cammino, insieme a me, ai miei fratelli e sorelle.
Sento di dover rendere grazie a Dio per avermi mandato questo segno riconciliante, la possibilità di conoscere questo uomo capace di renderci Chiesa con un abbraccio, un sorriso, uno sguardo profondo che scava l’anima e vi piazza certezza. L’incontro termina, quasi un’ora è volata in un attimo, il Papa è atteso per l’udienza generale alla quale avremmo dovuto partecipare anche noi, usciamo da casa Santa Marta (“questa è casa vostra” ci ha detto) con gli occhi lucidi. Lasciamo il Vaticano e giriamo per Roma, pian piano ognuno riassume il suo ruolo, tra poche ore rientrerò in carcere.
Non mi sento una persona migliore, nessun miracolo mi ha reso libero, ma per un’ora ho visto la mia Chiesa e so che ho trovato la mia pietra d’angolo. Da domani, se vorrò, avrò le migliori fondamenta su cui edificare la mia vita. Tengo, nel concludere, a ringraziare il cardinal Lorenzo Baldisserri, don Roberto, suor Cecilia, il rettore e gli studenti del collegio Capranica, che ci hanno ospitato e donato bei ricordi e tutte le persone che hanno collaborato alla realizzazione di questo straordinario incontro.
*Carlo Scaraglio, detenuto del carcere Don Bosco