Passa dalla scelta di costruire ponti e aprire brecce
don Emanuele Morelli
Direttore Caritas diocesana di Pisa
“Credo negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani” canta Marco Mengoni. Ha fatto notizia il fatto che il vescovo di Noto l’abbia citata “cantandola” ad una cresima in una parrocchia della sua diocesi. È diventato virale sui social media. Siamo strani. Fa notizia un vescovo che cita un cantante e non il fatto che “umani” non lo si nasce ma lo si “diventa”, che è frutto di un cammino di conversione, lento, progressivo, graduale ma soprattutto voluto, scelto, praticato non subito! Eppure nei vangeli si raccontano molte conversioni che non sono mai un epidermico cambiamento di abitudini ma una radicale trasformazione dell’esistenza, tanto che Paolo chiederà ai cristiani di Efeso (cfr. Ef 4,22-24) di “deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera”. La conversione si connota come un autentico percorso di umanizzazione: chiamati ad essere umani, con coraggio.
C’è poco da fare. Lo dobbiamo dire con chiarezza. O l’incontro con Gesù Signore ci cambia la vita, ci riconsegna alla pienezza della nostra esistenza oppure l’incontro non c’è stato. Il cambiamento della vita è la verifica, l’inveramento, la prova che autentica l’incontro.
Invece quanti cristiani e quante comunità ingessate, imbalsamate, più preoccupate di assicurare il mantenimento dello “status quo” che di essere fedeli allo Spirito; più preoccupati di garantire l’esistente che non di lasciarsi abitare, contagiare ed animare dalla forza sovversiva della resurrezione; più preoccupati di difendere verità sclerotizzate che non di abitare le terre di confine, le periferie esistenziali con l’inarrestabile energia della resurrezione di Gesù che ci consegna alla gioia ed alla speranza. Dunque, chiamati a conversione, chiamati ad essere umani! Al tempo del Giubileo della Misericordia.
Credo che la prima conversione da fare sia quella dell’idea/immagine di Dio che ci siamo costruiti. È una tentazione sempre presente nel nostro cuore e per questo la nostra conversione deve essere permanente. L’ idolo che ci assomiglia deve lasciare posto al Dio rivelato da Gesù di Nazaret, che ha il volto del Padre misericordioso. Una conversione possibile a partire dal fare continuamente esperienza di Gesù di Nazareth, nell’ascolto assiduo della sua parola, vivendo nella nostra vita i segni della sua. Anche le nostre relazioni e la nostra vita di discepoli chiedono conversione. Chiamati a vivere una vita viva, che pro-esiste, in dialogo e “pro-vocata” dal tempo presente.
Se il nostro tempo ci invita ad essere individualisti, i nostri cammini quotidiani invece si devono declinare sui percorsi a volte impervi ma entusiasmanti della comunione, dell’incontro, della relazione con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Se il nostro tempo ci chiede di essere competivi noi invece dobbiamo annunciare la bellezza della collaborazione. Il “nostro” è sempre l’esito di un processo di partecipazione e di condivisione ed è estremamente più bello e più vero del “soltanto mio!”.
Se il nostro tempo ci chiede di chiuderci alzando muri sempre più alti, la nostra conversione passa dalla scelta di costruire ponti e di aprire brecce. “Difficilmente resistiamo al fascino di un ponte: è il superamento della voragine della distanza, congiunge ciò che sembrava incongiungibile, permette esplorazioni di altre terre. Le sue arcate sono sfida nel cielo, splendono come la vera sfida dell’umanità. Beati i costruttori di ponti. Ad ogni livello. Congiungono senza confondere: i ponti non mischiano le terre, mettono in comunicazione le ricchezze” (AC). Se, dunque, il nostro tempo teorizza il rifiuto, la distanza e la paura noi dobbiamo generare accoglienza, vicinanza, relazione, interazione, fiducia.
Non dimentichiamoci poi che il nostro Dio è il Dio di una “nuova opportunità”. La nuova opportunità che sempre il Signore ci da è quella di “vivere oggi da risorti”.
Vivere da risorti è superare la croce, ogni croce, lasciarla “nuda” e seminare speranza e luce con i gesti della nostra quotidianità.
Vivere da risorti è convertirci alla gioia, dopo esserci compromessi con un Dio che muore per amore, che ci “ama da morire”.
Vivere da risorti è lasciare in fretta il sepolcro, perché la morte non è riuscita a custodire la forza immensa della vita di Dio…. Nessuna gabbia, nessun guscio, nessuna prigione può e deve tenere chiusa la vita, nemmeno la nostra.
Raccontiamolo, con la nostra vita di esseri umani autentici, che Gesù è vivo: pochi lo sanno!