Pisa, lunedi 6 agosto 2018 (da ToscanaOggi Vita Nova) «Un giorno, quando ancora lavoravo al carcere “Don Bosco”, arrivò nel mio ufficio suor Cecilia Falconieri, con una lettera firmata da Carlo, Giovanni e Francesco, tre dei detenuti con cui avevamo avviato un percorso di accompagnamento spirituale e sociale: ci chiedevano di non essere lasciati soli, di continuare ad essergli vicini anche nel momento in cui avrebbero lasciato il carcere per tornare alla vita normale. Se oggi sono qui è anche per quella lettera». Vittorio Cerri ha trascorso 32 dei suoi 66 anni in carcere: dieci alla direzione della casa circondariale di Lucca, cinque a Pianosa, diciassette proprio alla guida del “Don Bosco” di Pisa. E i prossimi due li trascorrerà a Calci, come responsabile volontario di “Misericordia Tua”. A titolo gratuito.
Quindi non si è ancora stancato?
«Pensi che il direttore del carcere nemmeno volevo farlo: il mio sogno era diventare magistrato (ride ndr). A parte di scherzi, in tanti anni dietro le sbarre ho capito con chiarezza che uno dei bisogni primari dei detenuti è quello di sentirsi amati. Don Bosco diceva sempre che, per crescere i ragazzi, occorrono tre cose: l’educazione scolastica e religiosa, ma prima di tutto l’amorevolezza. Vale lo stesso anche in carcere. Ogni volta che un detenuto si suicida mi brucia l’anima: vuol dire che non siamo stati in grado di toccargli il cuore, di fargli capire che per noi la sua vita è importante».
E’ per questo che, nel suo lavoro da direttore del carcere, si è sempre appoggiato molto alla Cappellania Carceraria?
«Ho sempre cercato e ottenuto il supporto della Chiesa locale, sia a Lucca che a Pisa. L’ho voluto per i detenuti e gli operatori carcerari e, lo confesso, anche per me: sono credente e il sostegno della comunità cristiana è stato molto importante anche a livello personale. Monsignor Plotti lo considero quasi un babbo. Ricordo che, nei momenti di difficoltà, lo chiamavo quasi per sfogarmi. A volte gli dicevo “Eccellenza, io non ce la faccio più” e lui mi rispondeva con quel vocione bonario: “Capita anche a me Vittorio, non si preoccupi: andiamo avanti”. E mi rimetteva in riga (sorride ndr). L’arcivescovo Benotto, invece, mi ha fatto uno dei complimenti più belli nella mia carriera di direttore quando, durante un visita, mi disse che quella del carcere era una delle parrocchie più vive della diocesi».
Come funzionerà “Misericordia Tua”?
«Sarà una casa famiglia in cui ritrovarsi alla fine del lavoro. Saranno gli stessi ospiti, tutti ex detenuti o carcerati ammessi alle misure alternative, che insieme a noi, si prenderanno cura della struttura. Abbiamo già scritto anche il regolamento che è umano, ma anche severo. Nella casa sarà sempre presente un operatore: se non ci sono io, ci sarà qualcun altro …».
A proposito, chi l’aiuterà?
«C’è un gruppo di lavoro in cui ho coinvolto anche Stefano Carmignani, storico ragioniere capo del “Don Bosco”: sarà lui a tenere a posto i conti, sempre come volontario e a titolo gratuito. E, in caso di bisogno, ci darà una mano anche il professor Francesco Ceraudo, pure lui storico medico del carcere di Pisa».
Avete già individuato i primi ospiti?
«In autunno dovrebbero arrivare da Pianosa due detenuti da tempo ammessi alle misure alternative e che conosco personalmente. Ma la casa sarà il punto di riferimento anche per Marius, il detenuto romeno che ha lavorato con la ditta proprio alla ristrutturazione della casa di Sant’Andrea a Lama. E poi ci saranno anche Giovanni e Pietro, due ex detenuti del territorio: uno è un agronomo e si sta occupando di alcuni oliveti avuti dalla parrocchia, l’altro darà una mano nel lavoro quotidiano».