Non ci faremo confinare in sacrestia. di don Antonio Cecconi

A poco più di un mese di distanza dalla pubblicazione su Il Tirreno, sopitisi tutti gli spifferi polemici, riproponiamo la riflessione don Antonio Cecconi. 

Due episodi pasquali di segno opposto, o forse no. Uno vicino a noi, l’altro un po’ più distante e di più ampia risonanza. A Perignano il dirigente scolastico non vuole far benedire a don Armando Zappolini la scuola locale; a Rebibbia il Papa celebra la Messa e lava i piedi a dodici detenute e detenuti. Due luoghi “laici”, sottoposti all’autorità civile, che accolgono un’offerta “religiosa” in maniera opposta. Il senso dei due gesti è il medesimo, in entrambi i casi viene proposto – e non imposto – un “segno” nell’imminenza della Pasqua, la festa più importante dei cristiani (ma anche degli ebrei). L’autorità scolastica che chiude le porte della scuola al parroco, rifiuto poi rientrato per una forte pressione dei genitori, è la stessa che dà agli alunni vacanza il giovedì e il venerdì pre-pasquali, i giorni dell’ultima cena, del tradimento e dell’ingiusta condanna alla morte in croce di Gesù di Nazaret.

Ma una benedizione, e più ancora una Messa, sono segni “confessionali”, e una parte dei cittadini sospetta l’ingerenza e l’intromissione della chiesa per condizionare la libertà di pensiero e controllare le coscienze, alla ricerca di egemonia sulla società. Così fu interpretata, alcuni mesi fa, la richiesta dell’Arcivescovo di Pisa di incontrare gli alunni in una scuola di San Giuliano Terme.

Fatta salva la buona fede, mi pare che la parzialità e il limite culturale sottostanti al rifiuto rischino di buttare via il bambino con l’acqua sporca: e cioè un ricco potenziale di educazione alla responsabilità personale, alla solidarietà sociale, all’accoglienza e difesa della dignità dell’essere umano che sono parte integrante dal messaggio cristiano. È per fedeltà a quel messaggio che papa Bergoglio va in carcere a celebrare i riti del giovedì santo, lavando i piedi a sei donne e sei uomini detenuti.

Che in passato la chiesa abbia usato a proprio vantaggio l’alleanza tra trono e altare è storia acquisita, e anche oggi tentativi di strumentalizzazione sono possibili. Ma una società democratica offre ampie possibilità di confronto sui fini e sui modi della convivenza civile, sui doveri dei singoli e delle componenti sociali, sullo smarrimento del senso di comunità di cui fanno le spese in primo luogo gli ultimi e gli emarginati. Tanto più in un tempo in cui dovrebbe esser chiara la necessità urgente e grave di messaggi positivi e responsabilizzanti da dare alle giovani generazioni.

Questo è quello che fa il papa, a Roma e dovunque lo porta il suo ministero. Ma le stesse cose le fanno tanti preti e tanti cristiani per i quali il messaggio evangelico e i gesti liturgici sono inseparabili dall’impegno per l’inclusione sociale, la legalità e l’educazione al dono di sé. Attenzioni su cui don Armando è in prima fila. Io mi sento di dire – a nome suo e di tanti altri preti e laici credenti – che non ci stiamo a farci confinare nelle sacrestie, salvo tirarci fuori quando c’è da tamponare un’emergenza, accogliere chi ha trovato chiuse tutte le porte, dare una risposta a quei poveri che sono sempre di più a causa di una crisi economica che li strangola e di una politica sorda ai loro gridi.

don Antonio Cecconi

Il Tirreno – 5 aprile 2015