Calci, 18 luglio 2018 — Salvare o no chi rischia di morire in mare? Fino a poco tempo fa, la risposta al quesito era una sola: chiunque si trovi in mare, o in qualsiasi specchio d’acqua in cui rischia di annegare, va salvato. Ed è (o era…) punto d’onore per chiunque si trovi di fronte a un rischio di annegamento fare tutto il possibile per trarre in salvo. Le mie pur scarse frequentazioni marinare mi ricordano che ogni imbarcazione è dotata di scialuppe di salvataggio, ciambelle di salvataggio ecc. Non solo per salvarsi se il mezzo su cui si viaggia facesse naufragio, ma anche per soccorrere qualora scattasse l’allarme: “uomo in mare!”. Prassi corrente e indiscussa, riscontabile tra l’altro nei numerosi ex voto del Santuario di Montenero in cui la Madonna appare come mediatrice di salvezza per singole persone o per navi in pericolo di essere inghiottite dai flutti.
Ho aperto la Bibbia, il mio principale attrezzo di lavoro che non a caso è il racconto della “Storia della salvezza”, e ho scoperto che il verbo SALVARE vi ricorre 252 volte e ben 302 volte il sostantivo SALVEZZA. La messe di citazioni spazia da Dio che salva il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto a Gesù che più volte interviene personalmente per salvare persone dalle malattie, dalla morte, dal peccato e anche dal rischio di annegare: come nel caso di Pietro, o quella volta che l’intero gruppo dei discepoli temeva il peggio su una barca in tempesta. Il racconto è suggestivo, intenso, provocatorio e direi pedagogico. Perché su quella stessa barca Gesù, stanco di una giornata faticosa, sta dormendo sdraiato a poppa su un cuscino giaciglio di fortuna. Di fronte al rischio di finire in pasto alle onde, scatta inevitabile la domanda: “Maestro, non ti importa che siamo perduti?”. A quel punto, il risveglio e la parola di Gesù sono causa di salvezza per tutti quelli che erano sulla barca con lui.
Oso accostare quella vicenda a quanto oggi succede nelle acque del Mediterraneo, alle teorie – e ormai alla prassi – in base a cui di chi sta in mare su imbarcazioni di fortuna e a rischio di annegare non ci deve importare perché sono stranieri, migranti, clandestini, invasori, infedeli nemici del cristianesimo, forse terroristi… Sta tornando di moda un verbo opposto a quello che don Lorenzo Milani insegnava ai suoi ragazzi: I CARE, cioè “mi importa”. Lo stesso verbo con cui Gesù fu svegliato perché salvasse i suoi amici in pericolo. Per don Milani il verbo opposto era il motto fascista “ME NE FREGO”. Qualcuno mi dirà ancora una volta che la sto buttando in politica, ma qui non si oppongono due schieramenti partitici o parlamentari, ma due modi di intendere la vita, le relazioni interpersonali e il futuro della società. Sulle quali il Vangelo con episodi come quelli citati è illuminante, piaccia o dispiaccia, e papa Francesco ce lo ricorda continuamente: non mi salvo da solo – per i credenti è in gioco addirittura la salvezza eterna: inferno o paradiso – perché la salvezza la trovo soltanto se mi faccio carico della salvezza degli altri, del mio prossimo, di ogni uomo e ogni donna che sono tutti figli di Dio, tutti miei fratelli e sorelle. Come farlo, questo è lo spazio della politica, di una politica che sia davvero cura della POLIS, di una città (città europea, città mondiale…) in cui ci sia posto per tutti. Era la lezione di un altro grande fiorentino, non a caso amico di don Milani: Giorgio La Pira.
don Antonio Cecconi
PS – integro la riflessione con un pensiero che mi è stato suggerito: i dodici bambini thailandesi, salvati grazie a una catena di solidarietà internazionale e seguiti ora per ora dal circuito mass-mediatico, sono più figli di Dio di tutti quelli che muoiono nel Mar Mediterraneo?