Ecco perchè occorrerebbe “una giustizia più ripartiva e riconciliativa e meno vendicativa”. La testimonianza di Luisa Prodi in Cattedrale alla veglia per la pace

La testimonianza di Luisa Prodi, presidente nazionale del Seac (il coordinamento degli Enti e delle associazioni di volontariato penitenziario), alla veglia per la pace promossa dalla Consulta diocesana delle aggregazioni laicali venerdì 29 gennaio in Cattedrale.

Intorno al carcere c’è un muro alto, per separare chi delinque da chi vuole vivere sicuro. Chi sta all’esterno in genere non si interroga su chi siano gli abitanti di quell’edificio, su come vivano, sulle loro prospettive future. In genere si tende a liquidare questo tipo di domande con frasi lapidarie: “avevano a pensarci prima” oppure “io chi fa quei reati lo chiuderei e butterei la chiave”. Forse sono discorsi che sentiamo intorno a noi, forse li facciamo anche noi.

Il fatto che esista un carcere ci dà sicurezza, per il fatto che c’è il muro e ci sono le sbarre. Ma davvero il carcere produce sicurezza? L’uomo o la donna che hanno passato due, tre, dieci anni della loro vita in una prigione hanno avuto davvero la possibilità di comprendere il dolore provocato dal reato che hanno compiuto, di assumersi le responsabilità di una vita adulta, di rendersi liberi dalle dipendenze che li hanno fidelizzati al crimine? La mia esperienza ormai quasi trentennale di di volontaria in ambito penitenziario mi dice che dal carcere non si esce migliori di come ci si è entrati: il tempo della detenzione raramente diventa una sosta di ripensamento in una vita “storta” – questo può avvenire solo se incontri qualcuno che ti dia una mano a riflettere –  ma nella maggior parte dei casi o è un tempo sospeso, nel quale non si affrontano i problemi che hanno portato a delinquere, o, peggio, è un tempo di rafforzamento di atteggiamenti criminali e antisociali (è noto, ad esempio, che nelle carceri si ha una radicalizzazione delle scelte di appartenenza alla criminalità organizzata o al terrorismo). E questo fatto si accentua se in carcere hai fatto esperienza di degrado, di mancato rispetto dei diritti e della dignità, di violenza, di infantilizzazione, aspetti purtroppo diffusi negli istituti di pena italiani.

Papa Francesco nel suo messaggio per la pace richiama le condizioni di vita nelle carceri, invocandone il miglioramento. Miglioramento che per fortuna negli ultimi anni c’ è stato, anche a causa delle scelte deflattive compiute dopo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che condannava lo Stato Italiano per trattamenti disumani e degradanti; ma ancora c’è tanto da migliorare, perché non si sono raggiunti i livelli che dovrebbero contraddistinguere un paese civile.

Papa Francesco si spinge oltre: ci richiama alla possibilità di inserire nel sistema delle leggi sanzioni alternative alla detenzione carceraria. Perché occorre trovare nuovi modi di punire,  più rispettosi della dignità della persona e più  mirati agli obiettivi che si vogliono raggiungere. La sofferenza fine a se stessa non serve a niente: occorre chiedere a chi ha commesso un crimine di attivarsi per riparare, restituire, fare qualcosa che ristabilisca l’ordine sociale infranto. Ha più senso una giustizia riparativa e riconciliativa al posto di quella retributiva e a volte vendicativa che caratterizza l’oggi del nostro sistema penale.

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Oggi queste forme di sanzioni alternative già in parte esistono, e sono l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la messa in prova, i lavori di pubblica utilità. Altre modalità sono in fase di formulazione all’interno di un lavoro di revisione complessiva dell’impianto normativo e attuativo dell’ordinamento penitenziario, cui si è dato il nome di Stati Generali dell’Esecuzione Penale.

Tuttavia la costruzione di una giustizia più umana e più risocializzante  non avrà luogo se non con l’apporto di una società che si renda disponibile all’accoglienza. Una società che accompagni la persona e i suoi familiari nel percorso penale, aiutando a ritrovare lavoro, relazioni familiari, reti amicali. Nello scorso anno in Italia più di 58000 persone sono state condannate a pene non detentive: sono persone che abitano nei nostri quartieri, nei nostri condomini, nei nostri territori parrocchiali.

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Il nostro essere cristiani ci deve far interrogare sul dono e sul compito che il Signore ci affida anche in relazione a questa realtà. Dono è poter  capire che è possibile coniugare misericordia e verità, giustizia e pace nella consapevolezza che l’amore di Dio raggiunge ogni uomo; ma dono è anche l’essere parte di una comunità, e quindi poter essere accoglienti  e poter creare reti di relazioni inclusive, vere e proprie ciambelle di salvataggio per chi, anche per propria colpa, rischia di venire sommerso dal mare agitato.

Aiutiamoci gli uni gli altri a convertirci all’idea di giustizia che il Signore ci ha insegnato e che Papa Francesco così frequentemente ci richiama, e cerchiamo di rendere le nostre comunità un vero luogo di accoglienza e di misericordia.

Luisa Prodi

(Presidente Consiglio nazionale del Seac, il coordinamento nazionale degli enti e delle associazioni di volontariato penitenziario)