(da ToscanaOggi, 26 settembre 2o21) – Le parole contano. E anche gli acronimi. Fra i tanti che accompagnano la discussione pubblica sull’immigrazione in Italia ve n’è uno il cui percorso semantico è emblematico delle politiche d’accoglienza e d’integrazione portate avanti negli ultimi dieci anni. I Cas, infatti, sono ormai da tempo diventati sinonimo di strutture d’accoglienza tout court. E nemmeno a torto, nonostante quell’acronimo, che sta per Centri di Accoglienza Straordinaria, rimandi ad una misura di carattere emergenziale e residuale rispetto ai percorsi d’accoglienza ordinari. Perché anche nel 2020, anno in cui gli sbarchi sono sì tornati ad aumentare ma con numeri lontanissimi da quelli del triennio 2014-2017, i Cas rimangono, lo strumento ordinario per la gestione dell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo: qui, infatti, sono ospitati 54.364 dei 79.938 migranti accolti nel nostro Paese, il 68% del totale. E’ sempre stato così, dal 2014 ad oggi. Ma così non dovrebbe essere. Non solo per una questione di principio, quanto proprio per le previsioni di legge che individuano negli ex Sprar (oggi Sai), le strutture e il programma deputato all’accoglienza di secondo livello che, quello che accanto all’assistenza materiale, sanitaria legale, mette in campo anche il sostegno linguistico e l’orientamento sociale e lavorativo. Due step fondamentali in tutti i percorsi d’integrazione e che sono assicurati in misura molto più limitata, e spesso grazie alla buona volontà degli enti gestori, nei Cas. Per un motivo molto semplice: i Centri di accoglienza straordinaria dovrebbe essere strutture residuali, da attivare in circostanze emergenziali quando non vi sono più posti negli ex Sprar. La realtà, invece, è diametralmente opposta e la vicenda dei Cas, nati come strutture d’accoglienza straordinaria e divenute quasi da subito la via ordinaria dell’accoglienza nel nostro paese, è il manifesto della disattenzione alle politiche d’integrazione nel nostro Paese. Magari è anche per questo se in Italia ai rifugiati servono 15 anni o più per raggiungere tassi di occupazione simili a quelli degli italiani.
Ha ragione da vendere Paolo Ermini quando sottolinea che “il vero nodo dell’immigrazione nel nostro Paese è varare una politica migrata all’integrazione”. Eppure quest’ultima è anche la assente dal dibattito pubblico sulla mobilità umana nel nostro Paese. Si è come di fronte a una divaricazione fra realtà e rappresentazione che lascia in un cono d’ombra, totalmente dimenticati dall’agenda pubblica, fenomeni che, invece, ne dovrebbero occupare il centro. Le disuguaglianze nel lavoro ad esempio: già prima della pandemia il trattamento salariale dei lavoratori immigrati era pari a a un terzo di quello registrato per gli autoctoni. E poi quelle nel mondo della scuola: nel 2017/2018 gli studenti italiani in ritardo erano il 9,6% contro il 30,7% di quelli con cittadinanza straniera. Disuguaglianze ulteriormente esacerbate dalla crisi innescata dalla pandemia: “Per le famiglie con almeno uno straniero, l’incidenza della povertà assoluta è pari al 25,3% (+3,3 punti rispetto al 2019), mentre per le famiglie composte id soli italiani risulta invece del 6%” ha sottolineato il presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo nell’audizione alla Camera del 27 luglio scorso. Praticamente una famiglia immigrata su quattro è in condizione di povertà assoluta. E allora, se non ora quando mettere davvero al centro dell’agenda politica di questo paese le politiche d’integrazione per i cittadini? Sarebbe probabilmente il modo migliore per dare concretezza all’invito di Papa Francesco in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra domenica. Perché davvero “in realtà siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non siano più gli altri, ma solo un noi, grande come l’intera umanità” (Papa Francesco, “Verso un noi sempre più grande” messaggio per la 107a Giornata del Migrante e del Rifugiato)
Francesco Paletti