Pisa, domenica 23 dicembre 2018 – “Comunità precarie”. Abbiamo scelto di intitolare così questo XIII Rapporto sulle povertà incontrate dalla rete dei CdA delle Caritas nella nostra diocesi di Pisa, perché siamo fortemente provocati da alcuni segnali che sembrano caratterizzare il nostro tempo.
L’individualismo esasperato, per cui il “mio” sembra aver preso il posto del “nostro”. Sembra che sia impossibile coltivare sogni condivisi, una visione di uomo e di società nella quale ci sia posto per tutti e si “riparta dagli ultimi per un genere diverso di vita (cfr. CIPP, 1981)
La presenza di segnali inequivocabili di xenofobia e razzismo, anche nei nostri territori, che sono evidenziati dallo slogan “prima gli italiani” che sconferma alla radice la prospettiva evangelica del “prima chi ha più bisogno” (cfr. Gv 13,34)! Ma da quando in qua un atto di solidarietà ne annulla un altro? Da quando in qua la generosità verso qualcuno in difficoltà si esprime togliendo l’aiuto a qualcun altro? Ci domandiamo: si è più o meno meritevoli di aiuto in base alla razza, al passaporto, al Paese di origine, al colore della pelle?
La scelta di far crescere le paure, dello straniero, del diverso, dell’altro… che fanno morire il “prossimo” e portano a giudicare “buonista” chiunque abbia il coraggio di varcare i deboli confini del proprio spazio per condividere qualcosa si sé (tempo, energie, risorse…).
Il dramma del lavoro che non c’è rende la convivenza sociale precaria e provvisoria e genera una sorta di “guerra tra poveri” oltre che una radicale mancanza di futuro, di speranza e di prospettiva.
La povertà educativa di tanti minori figli di famiglie impoverite dalla crisi non ci può lasciare indifferenti ma ci deve provocare a gesti coraggiosi.
La scelta di simboli religiosi, come il crocifisso, che svuotati dal loro significato profondo, vengono strumentalizzati per affermare identità e cultura che poi, nei fatti e nelle leggi, sconfermano il proprio il significato profondo dei simboli stessi.
Segnali inquietanti che ci portano a prendere atto del fatto che la nostra vita comune, il nostro essere insieme, il nostro fare comunità si è fatto più fragile, debole e precario.
“Comunità precarie” non è, allora, solo il titolo del XIII Rapporto Povertà della nostra Caritas diocesana ma è un vero e proprio grido d’allarmeche proprio le comunità, i territori sono chiamati a raccogliere.
Intendiamo il termine “comunità” in modo plurale, come territorio, copresenza, partecipazione, vicinanza, solidarietà, sicurezza, sentimenti, faccia a faccia, reciproca comprensione, ecc. Abbiamo bisogno di comunità che siano capaci di nuovo di sognare, di far crescere il livello di consapevolezza, di fare rete, di leggere i bisogni e di progettare insieme nuove risposte.
Ed abbiamo bisogno che queste capacità si sviluppino anche e soprattutto nelle comunità ecclesiali. I numeri delle povertà chiedono alle nostre parrocchie di diventare “generative”.
Anche la comunità cristiana, le nostre parrocchie e le nostre unità pastorali, di fronte a questa che non è solo un epoca di cambiamento ma un vero e proprio cambiamento d’epoca, è chiamata a sostenere forme di partecipazione, a creare occasioni per l’impegno civile e per l’assunzione diretta di responsabilità, del bene comune e per la difesa dell’ambiente.
Per le nostre comunità parrocchiali il rapporto con il territorio è una dimensione costitutiva e identitaria. II territorio, per la parrocchia, non è solo il luogo di competenza ma anche di appartenenza. La presenza della parrocchia nel territorio si esprime anzitutto nel tessere rapporti diretti con tutti i suoi abitanti, cristiani e non cristiani, partecipi della vita della comunità o ai suoi margini. Presenza nel territorio vuoi dire sollecitudine verso i più deboli e gli ultimi, farsi carico degli emarginati, servizio dei poveri, antichi e nuovi, premura per i malati e per i minori in disagio. Presenza è anche capacità da parte della parrocchia di interloquire con gli altri soggetti sociali del territorio. Ci ricordava Paolo VI in “Ecclesiam Suam”: “La chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La chiesa si fa parola; la chiesa si fa dialogo; la chiesa si fa conversazione”. Non possiamo esimerci dall’essere presenza viva nelle periferie “esistenziali”. La prossimità è essenziale per il nostro essere Chiesa.
Generatori di prossimità.
Ci ricordava Enzo Bianchi, al Convegno nazionale delle Caritas diocesane di Cagliari nel 2014: “Se uno si immette nella logica del ricercare chi è il prossimo, sbaglia, perché finirà per prestabilire chi vuole incontrare, finirà per decidere lui il bisogno prossimo, mentre la necessitas è quella di farsi, di rendersi prossimo a chiunque si incontri, a ogni uomo o donna che ci passa accanto. La vera necessitas è la decisione della prossimità verso l’altro, non importa chi lui o lei sia; non dobbiamo avvicinarci all’altro perché è nel bisogno, ma l’altro deve essere reso prossimo in quanto uomo o donna, fratello o sorella in umanità. Nell’incontro poi conosceremo il suo eventuale bisogno: solo così di può fare un cammino che umanizza chi incontriamo e noi stessi: È la fraternità o la sororità che ci stabilisce quali persone e soggetti, perché nessuno può diventare soggetto senza umanizzarsi, senza la relazione con gli altri”.
Davvero i numeri e le tabelle di questo rapporto, aridi come tutti i numeri e le tabelle, raccontano relazioni, incontri, sempre difficili e complessi, raccontano volti, nomi e storie di fatica che ci chiedono di darci cammino, insieme! Occorre decidere di farci prossimi, di incontrare l’altro, superando precomprensioni, pregiudizi, fatiche e diffidenze. L’altro è sempre un fratello – possiamo aggiungere nella fede – un fratello per il quale Cristo è morto (1 Cor 8,11).
Ecco perché crediamo che l’antidoto alla fragilità nostre comunità delle non sia la forza, o la sicurezza, o i divieti… ma l’assunzione di uno stile che ci chiede di metterci sempre in discussione, di operare con discernimento e di domandarsi sempre se ciò che facciamo è adeguato all’opera che si compie e fa davvero il bene della persona che incontriamo.
Ancora Enzo Bianchi ci ammoniva: “Sono convinto che ciò che è urgente per la chiesa e per la Caritas non è in primo luogo aggiungere, aggiungere azioni a quelle in cui siete già impegnati, quanto piuttosto assumere la povertà come stile. È una sfida enorme. (…) “La seconda sfida caratteristica della chiesa e del cristiano nell’azione caritativa è certamente l’umiltà, che potremmo anche definire povertà spirituale: essa permette di raggiungere uomini e donne per i quali non avviene il discernimento e il riconoscimento, se non da parte di chi si sente umile come loro, bisognoso come loro della misericordia di Dio. (…) Non dimenticate dunque: anche una Caritas che non arrivasse ad avere molti mezzi e a fare tante opere, può però sempre fare la carità di chi dà se stesso, la propria presenza all’altro, agli altri. Questo è ciò che il Signore vuole”
Non esser certi mai, povertà e umiltà sono tre caratteristiche che possono rendere le nostre parrocchie delle comunità con le porte spalancate, ospitali per tutti e significative per molti. Presidi di vita vera in questo mondo incolore; esperienza concreta e gioiosa; segno e strumento di Dio che ama la vita, quella di tutti a partire dagli “ultimi”. Un sogno? E che io che ho imparato a sognare non smetterò!
don Emanuele Morelli, direttore Caritas diocesana di Pisa