Profughi impegnati in attività di volontariato civico esempio di welfare generativo. Emanuele Rossi su Il Tirreno di mercoledì 5 agosto

Nei giorni scorsi abbiamo letto di un’intesa, siglata da alcuni comuni della provincia di Livorno insieme alla Prefettura, con la quale si è avviato un percorso di impegno lavorativo di alcuni giovani stranieri richiedenti asilo presenti sul territorio. La notizia non ha avuto l’eco che meritava, ma si tratta di una (bella) notizia che merita di essere valorizzata ed approfondita. Da ormai alcuni anni si sta parlando, in sede di riflessione scientifica, della possibilità di dar vita ad un “welfare generativo”, ovvero ad un sistema di servizi sociali che preveda una sorta di “restituzione sociale” di ciò che i destinatari ricevono sotto forma di prestazioni sociali (indennità di disoccupazione, sussidi per la povertà o per l’abitazione, ecc.). Una “restituzione” molto particolare, tuttavia: perché non diretta a chi eroga il servizio, bensì a favore della collettività. Le motivazioni a sostegno di tale innovazione del welfare sono molte. In primo luogo, essa mira a favorire una prospettiva di giustizia sociale: chi riceve un beneficio da parte della collettività (ad esempio un sussidio per la povertà) ed è in grado di fare qualcosa di utile a vantaggio di tutti, è giusto che lo faccia. In altri termini: a chi ha perso un lavoro deve essere garantito un sostegno per vivere, ma è altrettanto giusto che si impegni per “ripagare” quanto riceve. E ciò ha effetti positivi anche nei suoi riguardi, perché mira garantire la sua dignità di persona: in tal modo l’”assistito” non si sentirà un “peso” sulle spalle della società, ma un cittadino a pieno titolo, che riceve e che dà. Che viene sostenuto in una fase difficile ma contribuisce a migliorare la qualità di vita di tutti. Ed ancora, in questo modo ciò che è un costo (nel caso da cui siamo partiti, le spese di accoglienza dei migranti) può diventare un investimento, consentendo così di liberare risorse e di far fruttare i soldi pubblici. Se non attiviamo meccanismi di questo genere, infatti, quel sistema di welfare universalistico che abbiamo conosciuto rischia di non essere più sostenibile: e i vari diritti (all’abitazione, all’istruzione, alla sanità all’assistenza ai disabili e così via) potrebbero rimanere senza tutela. Le motivazioni dunque sono molte e importanti, e merita quindi di proseguire senz’altro su questa strada. Che tuttavia non è facile da percorrere sul piano operativo: l’esperienza negativa dei “lavori socialmente utili” deve insegnare a non commettere gli stessi errori.

Profughi_Volontariato

Come fare? Occorre certamente studiare a fondo e con attenzione i percorsi necessari, ma due punti possono essere sottolineati da subito. Il primo: non si deve trattare di un “lavoro” nel senso proprio del termine (che costringerebbe a entrare in meccanismi complessi e fuorvianti), bensì di un “servizio” (come è, ad esempio, il servizio civile), in uno spirito di volontariato, come giustamente ha sottolineato il Prefetto di Livorno. In secondo luogo, e di conseguenza, questo servizio non può essere gestito direttamente né dalla prefettura né dagli enti locali, ma deve coinvolgere gli enti del terzo settore, che hanno (o dovrebbero avere) la motivazione, lo stile e la struttura per svolgere attività di utilità sociale. A queste condizioni, la strada indicata dagli enti locali livornesi insieme alla prefettura può davvero indicare una prospettiva da valorizzare e da sviluppare.

Emanuele Rossi