Pisa, 16 marzo 2021 – Il paradosso di Lipa, il campo profughi simbolo della Rotta Balcanica con oltre mille persone rimaste praticamente quasi senza riparo dopo il rogo del 22 dicembre scorso. «E’ il peggio del peggio: isolato in mezzo alle montagne, senza una strada asfaltata che consenta di raggiungerlo: privo di acqua potabile ed energia elettrica. Anche riscaldare un tendone è un problema: per farlo abbiamo dovuto comprare un generatore a benzina» racconta Daniele Bombardi, il coordinatore di Caritas Italiana per la regione balcanica. «Eppure in Bosnia Erzegovina che a tanti non dispiace – prosegue -: forse proprio perchè è isolato, in un posto dimenticato da dio. Guardando alle scelte fatte in questi anni dalle autorità bosniache, l’impressione è che si vogliano proprio creare posti come Lipa».
Perchè?
«Perchè c’è il timore della reazione della popolazione locale, anche se finora non vi sono stati episodi di vera e propria violenza. Però è vero che l’insofferenza c’è, anche se non interessa tanto i migranti dei campi profughi …»
Per quale motivo?
«Quello di Lipa, che è l’unico gestito dal governo, è isolato. Gli altri, invece, sono affidati all’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni nda) e sono gestiti in modo molto diverso dal primo …»
Quindi l’insofferenza della popolazione locale verso chi rischia d’indirizzarsi?
«Soprattutto verso i migranti per i quali non c’è posto nei campi e, dunque, hanno trovato una soluzione di fortuna nei cosiddetti “squat”: case abbandonate, piuttosto che vecchie fabbriche o ruderi …»
Sono tanti coloro che vivono in queste condizioni?
«Purtroppo sì. Consideri che la capacità di accoglienza dei campi è ferma a cinque mila persone e, in questo momento, in Bosnia, vi sono fra i nove e i dieci mila migranti Che è rimasto fuori, vive negli squat e la loro è la situazione che ci preoccupa maggiormente insieme a quella di Lipa. Purtroppo, come capita anche in altri paesi, pure la popolazione tende ad incattivirsi verso di loro, dando vita a una sorta di guerra fra poveri, invece di puntare il dito nei confronti alle istituzioni che dovrebbe governare il Paese»
E’ complicato anche per voi operare in un contesto simile?
«Alcune difficoltà ci sono, soprattutto nell’assicurare la necessaria assistenza umanitaria alle persone che vivono fuori dai campi. Perchè la legge ci vieta d’intervenire negli squat: ovviamente il sistema per aiutare questi nuclei familiari si trova. Ma considerando che consegniamo anche cibo e legna da ardere, beni fondamentali in questo periodo dell’anno, ci agevolerebbe moltose ci consentissero di effettuare gli interventi umanitari di base, senza ogni volta essere costretti a “inventarsi” la modalità di far arrivare i beni primari».
A Lipa, invece, che cosa state facendo?
«Il possibile per rendere un po’ più umana una realtà che, comunque, rimane ai limiti dell’inumano. Abbiamo installato tre tensostrutture: una diventata una sorta di refettorio in cui i migranti possono mangiare seduti e in un ambiente caldo mentre due sono utilizzate, rispettivamente, per quale ambulatorio per chi avesse bisogno di cure mediche e per l’isolamento dei casi di scabbia. E in questi giorni stiamo acquistando una cisterna da donare al comune per portare su l’acqua potabiMa sono solo tamponi …».
In realtà che cosa occorrerebbe?
«Dal nostro punto di vista pensare proprio a una collocazione diversa. Le strutture non mancherebbero: ci sono hotel dismessi o vuoti che potrebbero essere adattati all’accoglienza. Abbiano anche fatto più di una proposta, raccogliendo sempre risposte negative: le altre soluzioni sono considerate troppo vicine ai centri urbani e le istituzioni temono proteste. Al riguardo, anzi, siamo anche un po’ preoccupati …»
Da che cosa?
«Dal fatto che soluzioni come quella di Lipa possano moltiplicarsi ed estendersi anche all’accoglienza di famiglie con bambini. Sarebbe un dramma, ancora più di adesso»