21 marzo 2016: primo giorno di primavera. Ed è con la speranza di novità e di cambiamento che porta ogni primavera che vogliamo ricordare don Giovanni Nervo e don Giuseppe Pasini, primo Presidente e primo Direttore di Caritas Italiana, tornati al Padre rispettivamente tre e un anno fa.
Due maestri del nostro tempo, non solo per le Caritas diocesane, che ricordiamo con l’intervento di Domenico Rosati in occasione della presentazione del premio “Teologia della Carità e Solidarietà”.
Vangelo e Costituzione: la profezia di Nervo e Pasini
È stato giusto e opportuno immaginare un’iniziativa che ricordasse insieme, unitariamente, le figure, le personalità, il ruolo e l’insegnamento di Giovanni Nervo e di Giuseppe Pasini. Impossibile, del resto, considerarli separatamente; ed io sono molto onorato di poterli ricordare in questa circostanza così importante e impegnativa.
Le fonti alle quali attingevano, il respiro del loro impegno ecclesiale e civile, la stima che li ha circondati in vita non meno che il problematico trattamento riservato, quaggiù, alla considerazione dei loro meriti; e in più un’amicizia rispettosa e profonda che anche gli estranei percepivano dal modo in cui l’uno parlava dell’altro: tutto spinge a percepirli come una presenza univoca, una grazia che ci è stato dato di incontrare e, dunque, un’eredità da non disperdere nel banale consumo dei ricordi di maniera. La coincidenza della loro morte nel primo giorno di primavera appare così come un naturale corollario del loro comune servizio.
Per descriverne i tratti utilizzo parole scritte da Pasini all’indomani della scomparsa di Nervo: “Un grande uomo che ha fatto della fede la via per aprirsi agli altri, accettandoli, prima di tutto, come persone come lui, e valorizzando le idee di tutti, un uomo che ha praticato con i fatti la laicità, essendo cattolico, e la fedeltà ai valori della Costituzione italiana, dimostrando cosa significhi essere veramente cristiani. Quando affermava che il Vangelo e la Costituzione erano per lui i capisaldi su cui costruiva un rapporto umano profondo con tutte le persone, di ogni estrazione sociale e culturale, ci ha insegnato a comprendere come la fede cristiana non possa essere pienamente diffusa se non vivendo pienamente la propria dimensione di cittadini e di cittadini che cercano e trovano nei principi della Costituzione l’orientamento di fondo della propria azione”. Parole che, rilette oggi, si possono applicare senza forzature allo stesso Pasini.
Vangelo e Costituzione come sottotitolo esplicativo del tema “Teologia della carità e solidarietà” scelto dai promotori del premio. Mi pare questa la chiave da consegnare a quanti intendano, nello studio e nell’azione, onorare la memoria di questi due protagonisti, le cui biografie si intrecciano e si sovrappongono soprattutto nell’impresa di invenzione e di costruzione della Caritas italiana, ma con riflessi che vanno ben oltre il perimetro di una sigla. Non è una semplificazione indebita: infatti il Vangelo della carità, nella sua accezione più nitida, quella che conduce alla chiesa povera dei poveri, era sicuramente alla base dell’atteggiamento di questi due protagonisti; e l’azione per la giustizia propria dell’impegno civile così come codificato nella Carta era da essi vissuta come espressione della dimensione politica della carità.
Da dove veniva tale atteggiamento? Qui una distinzione è imposta dalla differenza anagrafica. Nervo è adulto e sacerdote da prima del Concilio ed è espressione – per usare il titolo di De Gasperi a proposito della genesi della Rerum Novarum – dei tempi e degli uomini che prepararono la grande convocazione di Papa Giovanni. Tra questi, sicuramente andrebbe tratto dall’oblio un prete che don Giovanni sicuramente frequentò nell’esperienza compiuta – ne ricorre il settantennio ‐ all’interno delle Acli delle origini. Mi riferisco a Mons. Luigi Civardi, grande divulgatore ed educatore, il quale faceva leva sul “Cristo dei pani e dei pesci” per denunciare l’impraticabilità di una teologia che separava l’anima dal corpo e per propugnare l’unicità della storia della salvezza, concetto sul quale si sarebbe poi attestata la Gaudium et spes.
Anche Pasini compie i suoi primi passi nell’ambito delle Acli, ma ciò avviene già dopo il Concilio e nel vivo di quella fase ascendente dell’organizzazione dei lavoratori cristiani che culminerà nella crisi del rapporto con la gerarchia, una congiuntura che ne marcherà il cammino sacerdotale e lo spingerà, con la mediazione di don Giovanni, a immedesimarsi con la nascente Caritas Italiana.
Non è certamente per caso che Nervo, incaricato di costituire ex novo la Caritas italiana, scelga di farsi aiutare da don Giuseppe, del quale conosce, in particolare, le attitudini di educatore e di organizzatore. In altra occasione ho adombrato l’ipotesi di una connessione – nel sentire di Paolo VI – tra la perdita di fiducia nelle Acli e … l’investimento ecclesiale sulla Caritas intesa non come centro di erogazione assistenziale ma come matrice pedagogica di una comunità cristiana partecipe dei bisogni dell’umanità. Quel che mi appare sicuro, avendo avuto la ventura di condividere le due esperienze, è certo un travaso tra di esse di sensibilità e di contenuti.
I due protagonisti sono chiamati a misurarsi con gli eventi di una storia complessa e contrastata sia sul piano civile che su quello ecclesiale. Giova richiamarne i passaggi essenziali abbozzando una sommaria periodizzazione.
Da 1971 al 1976 il quadro politico è dominato dalla crisi del centrosinistra non più in grado di rispondere alle spinte dei mondi giovanile ed operaio. La destra estrema si manifesta nella strategia della tensione, l’estrema sinistra sta incubando il terrorismo. Le due grandi forze politiche antagoniste, la Dc e il Pci si cercano per realizzare un inedito rapporto di collaborazione ritenuto essenziale per salvare il paese.
Nello stesso periodo la comunità cristiana è attraversata delle dinamiche del post‐ Concilio con i fenomeni di contestazione e con episodi critici come quello delle Acli, che portano, tra l’altro, alla sospensione delle Settimane Sociali, alla promozione del referendum sul divorzio e, dopo il suo insuccesso, alla ricerca di un nuovo modo di essere chiesa con il convegno su “Evangelizzazione e promozione umana”, in cui Nervo figura tra i relatori.
Dal 1976 al 1985 la politica conosce una fase di convulsioni drammatiche. L’assassinio di Moro interrompe la ricerca di nuovi equilibri e determina il riflusso sulle vecchie posizioni di contrasto tra Dc e Pci, con l’emersione di Craxi che patrocina un’alternanza all’interno del sistema di potere consolidato. Si profila intanto (Reagan e Tatcher) l’ondata neoliberista con l’attacco al welfare e ai sindacati.
Il quadro ecclesiale è dominato dal pontificato carismatico di Giovanni Paolo II che predilige i “movimenti” rispetto alle formazioni tradizionali. La dottrina della mediazione è travolta dalla dottrina della presenza (Loreto 1985) ciò che favorisce l’estensione delle relazioni con le forze politiche di governo.
Dal 1985 al 1995 infine si registra una serie di crolli di portata imponderabile: il muro di Berlino, la Democrazia Cristiana e i partiti “storici”. Di qui l’avvento dei Berlusconi con tutti i rivolti sociali ed etici.
Quanto alla Chiesa, con il convegno di Palermo si completa il cammino di “presenza” iniziato a Loreto accentuando una caratterizzazione sui “valori” alcuni dei quali, in rapporto ad una precisa scelta culturale, saranno poi proposti come “non negoziabili”, in un processo che di protrarrà, accentuandosi, anche con il successivo pontificato.
All’interno di questo contesto la presenza di mons. Nervo e di mons. Pasini ‐ impossibile darne conto in modo compiuto ‐ può essere evocata attraverso l’ingrandimento di alcuni fotogrammi che per me sono anche vividi ricordi.
In primo piano viene il contributo al convegno del 1976 il cui stesso titolo, “Evangelizzazione e promozione umana”, evocava la sintesi su cui la Caritas e i suoi responsabili stavano operando. Riferendo sui contributi delle diocesi alla preparazione del Convegno, Nervo sottolineò come l’indissolubilità del nesso tra i due poli del tema fosse condivisa e come fosse forte l’istanza per realizzare delle comunità cristiane in grado di viverlo e di metterlo in pratica.
Vorrei ricordare qui, e non solo perché siamo a Padova, che tale aspirazione così diffusa alla base, trovò nel convegno una formulazione teologica coerente nella relazione di mons. Filippo Franceschi, specialmente là dove, affacciandosi sull’inesplo‐ rato territorio del pluralismo delle scelte politiche, enunciava tra gli altri criteri quello “dell’impegno per il superamento dello status quo nella prospettiva del Regno, che non consente di cristallizzare la speranza in singole esperienze storiche ma spinge verso traguardi sempre più alti”.
E vorrei pure evocare un episodio non esplorato della biografia ecclesiale di Don Giovanni collocato alla metà degli anni Ottanta, quando la Cei gli affidò l’incarico di “Coordinatore per i rapporti Chiesa‐territorio”, una funzione inedita che però non ebbe seguito. Eppure l’incaricato l’aveva presa sul serio e si era preparato a svolgerla con impegno e dedizione. In più occasioni pubbliche aveva esposto i suoi propositi: modulare l’intervento sulla dimensione delle Unità sanitarie locali coinvolgendo gli operatori pastorali, i responsabili delle opere caritative, le associazioni di volontariato e i laici disponibili; il tutto per “ripartire dagli ultimi sul territorio”con una rilevazione di bisogni e il confronto con le normative generali e locali, per promuovere iniziative formative appropriate per la durata di almeno un quinquennio. Il fine era quello di colmare una lacuna esistente nel tessuto ecclesiale: “Quando nel programma che abbiamo proposto cercheremo concretamente di ripartire dagli ultimi scopriremo che gente per bene che frequenta la chiesa non sarà fra noi; e forse ci troveremo a fianco anche gente che in chiesa non ci va mai”… Ma l’impresa non andò in porto e la funzione fu depennata senza essere né esercitata né surrogata senza che ne fossero rese note le motivazioni.
Partire dagli ultimi era il modo con cui nella Caritas si declinava il Vangelo della carità, nel tentativo di fare della scelta dei poveri la cifra del corso post‐conciliare di tutta la comunità cristiana. Particolarmente in Pasini questo era un concetto che veniva da lontano. Lo aveva espresso quando da Vice assistente delle Acli si occupava della formazione dei lavoratori. “Per la fede cristiana l’uomo che non accetta di vivere nella carità è alienato, è fuori cioè della sua realtà di uomo, è uno che ha rinunciato a costruirsi. L’uomo è verità solo nella carità”. E applicava tale criterio all’azione dei cristiani nel movimento operaio anche come metro di giudizio sulle situazioni storiche, per cui “una struttura è sbagliata se non permette il bene dell’uomo, se gli impedisce di essere libero, di essere vero, se lo rende alienato; è sbagliata se crea per costituzione strati sociali di privilegiati e sacche di sfruttati e di emarginati”.
Sul Vangelo della Carità si sarebbe poi imperniata la preparazione del Convegno ecclesiale di Palermo (1995) l’ultimo della direzione Pasini. La Caritas vi si dispose coralmente con un largo coinvolgimento di tutti i suoi quadri e di tutte le sue risorse. E
non nascose la sua delusione quando constatò che la grande assemblea rimaneva, per un verso, paralizzata in attesa che il Papa si pronunciasse sulla vexata quaestio del mantenimento o del superamento dell’unità dei cattolici dopo il tracollo della Dc e per un altro come…dirottata verso l’approdo di un “progetto culturale” non studiato in precedenza che avrebbe potuto distrarla dalle sua missione propriamente pastorale, come paventava il cardinale Martini. E ci fu pure chi avvertì il rischio che un’elaborazione culturale si sovrapponesse all’ispirazione evangelica e lo facesse, come poi accadde, in modo selettivo esaltando alcuni valori ed oscurandone altri.
Naturalmente anche dopo Palermo la terra ha continuato a girare e la Caritas a declinare la propria sintesi di evangelizzazione e promozione umana. Ma chi scriverà la storia dovrà constatare le difficoltà incontrate nel mantenere e sviluppare quel che dopo il Concilio appariva acquisito. Anche in queste condizioni l’insegnamento e la presenza di Don Giovanni, sempre assiduo in Consiglio nazionale, e di Don Giuseppe non hanno mai lasciato soli i successori.
La Caritas, del resto, si era attrezzata a fronteggiare le sfide imposte dalle mutazioni sociali in corso dandosi una “carta pastorale” redatta come conclusione di un anno sabbatico dedicato interamente ad una ricognizione sul campo e quindi al tentativo di leggere in modo aggiornato i segni dei tempi. Era un progetto Caritas ma era soprattutto una proposta per tutta la comunità cristiana, invitata esplicitamente ad una “conversione a partire dai poveri”. “Per tutta la comunità cristiana e in particolare per la Caritas – organismo pastorale della Chiesa italiana – partire di poveri non è né scelta escludente perché di parte, né impegno di pochi, ma fedeltà al progetto di Dio ed esigenza di radicalità originata dal battesimo, oltre che dovere tra professione di fede e stile di vita”.
La profezia dei poveri, comunque si presenti nelle diverse forme storiche, è sempre una sfida. Richiede una conversione radicale delle coscienze e non si appaga della superficiale pratica dei gesti compassionevoli. Con Nervo e Pasini la Caritas si è messa (o si è venuta a trovare anche per il deperimento funzionale di altri soggetti) in prima linea nel campo delle politiche sociali e dell’organizzazione civile. Il legame vitale e si direbbe l’intercambiabilità dei ruoli tra i due ha continuato a funzionare anche nella ricerca volta a contribuire a scelte qualificanti nell’ambito della legislazione sociale.
E qui è essenziale far riferimento a quel formidabile polmone esterno che è stato rappresentato nel tempo dalla Fondazione Zancan, sia con la costruzione annuale dei rapporti monografici sulla povertà e l’esclusione sociale sia con la ricerca e l’elaborazione di proposte da immettere nel dibattito pubblico oltre con una vasta ed incisiva attività di formazione e di aggiornamento.
Con tale supporto la Caritas si è qualificata come soggetto autorevole e centro d’iniziativa su temi importanti dell’agenda sociale, mostrando capacità di incidere in modo coerente nelle mutevoli fasi degli orientamenti politici.
Nei primi anni della sua esistenza, infatti, la Caritas si misurò con la tendenza espansiva dello stato sociale assecondando le riforme che esso produceva, a partire da quella sanitaria e predisponendo strumenti volti ad assicurare una partecipazione integrativa di soggetti sociali quali il volontariato, la cooperazione sociale, lo stesso mondo dell’handidcap.
Quando poi il vento delle dottrine economiche è cambiato, spingendo verso forme di riduzione dello stato sociale a vantaggio di una presunta superiorità delle forme privatistiche, la posizione della Caritas si è fatta intransigente nell’opporsi ad ogni forma residuale di protezione e nel rivendicare l’universalità e l’uguaglianza della protezione sociale.
Il punto di sintesi di tale presenza è lo schema di quella che sarebbe diventata la legge 328, di riforma dell’assistenza sociale – attesa dai tempi di Crispi – e arrivata in porto solo nel 2000, ma pensata assai prima, nel contesto del programma economico nazionale del 1965 e costruita sulla base del criterio unificante dei servizi alla persona. Una formula inclusiva che, specie nella visione di Pasini, inglobava anche la tutela della salute.
È del 1994, in presenza dei timori di smantellamento insiti nei propositi del governo Berlusconi, che un documento Caritas chiede “l’individuazione e la definizione dei servizi sociali e sanitari essenziali, della cui fruizione tutti i cittadini, indistintamente, devono poter godere, nonché degli standard minimi che coprano bisogni sociali fondamentali, garantendo la dotazione delle risorse finanziarie e di personale”. E quando tali concetti trovano espressione negli articoli di una proposta di legge, ecco che si verifica un caso davvero inusitato nelle cronache politiche italiane: accade cioè che del medesimo testo si impadroniscano forze politiche diverse, di centro, di sinistra e di destra offrendo così al Parlamento una piattaforma unitaria che reca tracce evidenti di una egemonia culturale della Caritas.
Tale piattaforma – è il caso di ricordarlo – conteneva anche l’idea di istituire uno strumento universale di contrasto alla povertà, che trovò poi traduzione nella legge 328 nella formula del “reddito minimo d’inserimento”, deliberato in via sperimentale per asserita mancanza di fondi (in realtà per incapacità di riordinare il sistema dei sussidi) e poi abbandonato lungo il cammino per asserita esposizione ad abusi, in realtà per scaduta volontà politica.
Il richiamo s’impone mentre il tema ritorna con prepotenza davanti all’estendersi dell’area della povertà: non per vantare primogeniture ma per indicare la validità di una scelta da parte di chi l’aveva compiuta in tempi non sospetti.
Non è il caso di fornire qui il catalogo delle iniziative e degli interventi promossi o sollecitati dalla Caritas su questioni decisive come l’immigrazione e l’integrazione, le tossicodipendenze e la famiglia, l’obiezione di coscienza o il sostegno all’handicap; o come la capacità d’intervento rivelata a fronte di calamità naturali o non in Italia e nel vasto mondo. A me piace tuttavia evocare in questa sede un dettaglio che rivela quanta importanza si annettesse al tema della partecipazione. Veniva da Nervo in particolare assillo il coinvolgimento dei cittadini alla vita delle comunità. La sua domanda era: “Qual è il posto dei poveri nel bilancio comunale”?
Non era il manifesto di un localismo contabile ma la manifestazione di un bisogno di controllo popolare, e dunque di partecipazione attiva, dei cittadini all’orientamento delle comunità più prossime. Leggere il bilancio, misurare le proporzioni degli stanziamenti “sociali”, purtroppo spesso residuali rispetto al resto, rivendicare spazi di maggior giustizia e, soprattutto, rendersi conto della situazione effettiva delle finanze locali e della necessità di farsene carico in modo collettivo: questo era il fine da perseguire. E magari a fine anno redigere una “pagella elettorale” che riconoscesse i meriti del rappresentante e al tempo stesso lo ammonisse; che facesse meglio.
Ma stare sui problemi, prendere posizione, esigere da se stessi il rigore che si domanda a tutti non è mai un’operazione indolore. Gli ambiti che si ritengono lesi trovano sempre il modo di farsi valere; e non è mai difficile collocare sotto la rubrica della “devianza politica” ogni iniziativa che metta qualche enfasi sulle questioni della promozione umana. E’ la ritorsione dei benpensanti, anche cattolici, quando s’imbattono in altri fratelli di fede che mettono in discussione i canoni dell’ordine costituito. Un Giorgio La Pira che reclama per il lavoro le stesse tutele assicurate al diritto di proprietà o un prete che dice messa in una fabbrica occupata: immediatamente scatta l’appello ai superiori perché venga ripristinato l’ordine turbato; e spesso ne segue il paterno richiamo ai…trasgressori perché tutto rientri nella norma dell’abitudine. Nervo e Pasini hanno conosciuto gli effetti di questa prassi anche se non ne hanno mai amplificato la risonanza in uno spirito di obbedienza che certifica il loro amore alla chiesa. Obbedientissimi in Cristo, si potrebbe dire anche di loro, come di don Primo Mazzolari, ora felicemente, anche se tardivamente, re‐ immesso sul cammino che porta alla gloria degli altari.
Tre spunti per concludere. Il primo riguarda l’invito a frequentare la storia, quella prossima non meno di quella remota. È importante capire che la vicenda dei cattolici nel corso del tempo e nelle relazioni con le differenziate espressioni della economia e della politica non ha uno svolgimento lineare; rendersi conto che essa contiene asprezze e contraddizioni anche rilevanti; e comprendere che in ultima analisi la tradizione, da tanti invocata come segno di immutabilità, non è cha la sintesi delle molteplici modalità con cui la fede entra in rapporto con la storia ed in tal modo può influenzarne il corso. Indicare e riconoscere manchevolezze ed errori non porta a condannare o escludere, specie in regime di … misericordia; aiuta soltanto a evitare le peggiori ricadute, che sono quelle consapevoli. Da questo punto di vista la biografia congiunta Nervo‐Pasini offre materiali preziosi per rileggere, in modo critico ed anche autocritico, alcune sequenze della vita delle comunità cristiane in Italia nello scorcio del XX secolo e di rintracciare tra le pietre scartate quelle ancora necessarie per proseguire la costruzione.
Il secondo spunto riguarda il tema del prossimo convegno ecclesiale nazionale, dedicato al “nuovo umanesimo” Mi pare che ad esso si attagli un’espressione di Giuseppe Pasini tratta da uno scritto del 1969. Cito: “Il gruppo cristiano può ritenersi animato dalla carità se si riscopre cercatore instancabile di nuovi brevetti per costruire la comunità umana; capace di dare al proprio cammino un ritmo più celere di quello della storia”. Fine della citazione. “Nuovi brevetti”, cioè nuove invenzioni non per realizzare un percorso diverso, ma per anticipare una realtà futura che preveda il riscatto dei piccoli, accreditando la prospettiva per cui – cito ancora – “accettare il cielo come prospettiva equivale impegnarsi per la terra”.
L’ultimo spunto viene dalla considerazione della sintonia oggettiva tra la testimonianza di Giovanni e Giuseppe e l’insegnamento di Papa Francesco. In uno scritto che reca la data del 13 febbraio 2015, probabilmente l’ultimo prima della morte, Pasini ha notato che Nervo “ha goduto alla elezione di Papa Francesco e ha detto il suo nunc dimittis del vecchio Simeone: la causa della carità era ormai in mani sicure”. Anche qui: riferito a Nervo, ma vale anche per Pasini. Al quale proprio al limite estremo della esistenza terrena è stato dato di essere rassicurato, sul punto, dalla viva voce del Vescovo di Roma. La carità tornata in mani sicure! Il desiderio di testimoni vissuti di carità si fa messaggio e impegno per chi ha l’obbligo di proseguirne l’opera.